Pubblichiamo alcuni passi dell’introduzione di Giorgio Israel al testo “Quello che spesso si dimentica di dire. Matrimonio omosessuale, omogenitorialità e adozione” del gran rabbino di Francia, Gilles Bernheim.
Resa posssibile dalla collaborazione tra la casa editrice CulturaCattolica.it e la casa editrice ebraica Salomone Belforte & C. (trad. di P. L. Cabantous, pp.67), il pamphlet (ottobre 2012) contiene nell’edizione italiana anche una prefazione dell’arcivescovo di Ferrara-Comacchio, Luigi Negri, una postfazione del rabbino di Torino, Alberto Moshe Somekh e un testo su Marc Chagall di Maria Gloria Riva.
"Se il saggio del gran rabbino di Francia Gilles Bernheim, che ora viene offerto al lettore italiano, avesse contestato il matrimonio omosessuale secondo i principi della legge ebraica, esso non avrebbe avuto la portata e la risonanza che ha invece conosciuto. Come è chiarito nell’introduzione al saggio, l’autore non ha fatto alcun riferimento ai divieti contenuti nel Levitico e si è riferito piuttosto all’idea generale che la Bibbia offre della problematica del “genere” e alle valutazioni morali connesse.(...) Nella nostra epoca, e anche nell’ambito delle religioni monoteiste, si sta perdendo il senso di cos’è la morale, troppo spesso confusa con un’etica che è divenuta un complesso di norme pratiche frutto di negoziazione tra punti di vista diversi.(...). Bernheim è andato alla ricerca dei principi morali che debbono guidarci nel giudizio e che debbono essere in consonanza con una visione umanistica secondo la quale l’uomo non è né mero oggetto della tecnoscienza né un agente mosso dal solo intento di ottimizzare il proprio benessere. Le religioni monoteiste – l’ebraismo e il cristianesimo, in particolare – hanno avuto la straordinaria funzione storica di porre al centro della vita la considerazione della sfera morale, concependo l’uomo come un “fine in sé”, come diceva Immanuel Kant e come ripeteva Karl Popper sottolineando che l’uomo è qualcosa di profondamente diverso da una macchina.(...)
Ma, appunto, lo scritto del rabbino Bernheim offre argomenti che non è necessario essere credenti per accettare.(..). Egli ha identificato nella teoria del “gender” la punta di lancia di una battaglia ideologica volta a distruggere quello che viene chiamato l’“essenzialismo” della cultura occidentale (...). Meramente culturale sarebbe la contrapposizione tra il corpo inteso come naturalità e l’artificialità: la tecnologia ci permette di pensare ogni sorta di intervento sul corpo che superi i processi naturali e vada verso la costituzione di un essere “misto”, un “cyborg”, una miscela di naturale e di artificiale."
Di conseguenza l’autentica liberazione della donna sta nel non considerarla più come “madre naturale” e nel trasformare la procreazione in un processo gestito dalla tecnologia nel quale non gioca più alcun ruolo la differenza di genere. Nella questione specifica in oggetto, non si tratta quindi di legittimare un matrimonio particolare accanto a un altro, ma di fare del matrimonio un contratto qualsiasi, tra “esseri” qualsiasi, in cui la specificità sessuale non interviene più e in cui le modalità della “filiazione” sono del tutto irrilevanti: che si tratti di generazione tradizionale, generazione mediante uteri in affitto o per adozione. Tutto è sullo stesso terreno.
E’ da notare che, in questa visione, il superamento dei dualismi, delle strutture binarie è del tutto fallace, perché alle asimmetrie che ci si propone di distruggere si sostituisce un’asimmetria molto più pesante e pervasiva: quella di una visione materialista che concepisce la persona come una macchina manipolabile a volontà in termini tecnologici, come se la tecnologia fosse qualcosa di disincarnato. Si tratta quindi di un grande inganno cui se ne accompagna un altro, simmetrico e complementare: la riduzione di tutto a processi culturali. Difatti questa rappresenta una forma estrema di idealismo, e l’idealismo radicale va sistematicamente a braccetto con il più radicale materialismo.
Siamo di fronte a una battaglia ispirata a un’avversione profonda per le radici stesse della civiltà e della cultura occidentali e che viene da lontano, fin da quegli anni Sessanta del secolo scorso in cui gli studenti dei campus statunitensi scandivano lo slogan “From Plato to Nato” (“da Platone alla Nato”), che oggi può far sorridere ma illustra meglio di lunghi discorsi l’ideologia in gioco.
L’aspetto bizzarro di questa faccenda è che – come ha bene spiegato il rabbino Bernheim – tutto ciò ha ben poco a che fare con il rispetto degli omosessuali, con la lotta contro l’omofobia, per la democrazia e la tolleranza e men che mai con il rispetto della “diversità”. Difatti sono proprio le “diversità” che si vuole abbattere. Per difendere i diritti degli omosessuali basterebbero una serie di provvedimenti legislativi, mentre l’ostinazione a impadronirsi del fortino del “matrimonio” e a demolire tutte le parole connesse (come “padre” e “madre”) indica ben altri obiettivi. A tal punto, che diverse voci nell’ambito dei movimenti gay si sono levate a chiedere cosa c’entri mai la difesa dei gay e dei loro diritti nella società (che, appunto, sarebbero garantiti dalla legittimazione di una diversità, un tempo considerata come un peccato e una bruttura da cancellare dal volto della società) con la battaglia per il matrimonio.
In tutto questo, la lotta contro l’omofobia finisce in secondo piano e resta in primo piano soltanto la tecnica ricattatoria per cui chiunque si opponga al matrimonio e alle adozioni gay è un omofobo e riceve il marchio d’infamia di questo epiteto. E’ invece assai probabile che, su questa strada, i sentimenti omofobici si rafforzino in larghi strati della popolazione e nascano problemi ancor più gravi. L’intolleranza, infatti, non è cosa che si sopprima per decreto, bensì è un complesso di sentimenti che debbono essere sradicati in profondità sul terreno culturale e psicologico, e ciò richiede tempo, pazienza e perseveranza. Nessuno di questi fattori appare in gioco nella vicenda del matrimonio gay.
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