lunedì 3 dicembre 2018

IL GULAG PER RIEDUCARE GLI "OMOFOBI" ?

 L’intervento I NUOVI GULAG è apparso il 27.9.18 
sulla rivista americana First Things 
(Journal of Religion and public Life).
Autore è Carl R. Trueman  Professor in the Alva J. 
Calderwood School of Arts and Letters at 
Grove City College, Pennsylvania. 

Nell’articolo Trueman sottolinea la crescente intolleranza degli attivisti LGBTQ  verso i loro presunti “nemici”. Il fatto che si raccomandino i gulag per i cosiddetti “omofobi” mostra la radicale politicizzazione degli studi umanistici da un lato, dall’altro conferma il vecchio detto che chi non studia la storia è condannato a ripeterla. 

L’articolo di Trueman è stato segnalato dalla Newsletter della rivista Vita e Pensiero Plus, 30 (che ringraziamo):
Per la versione originale dell’articolo vai a: 
https://www.firstthings.com/web-exclusives/2018/09/the-new-gulags?utm_source=Newsletter+Vita+e+Pensiero&utm_campaign=ea766aac1b-EMAIL_CAMPAIGN_2018_11_30_03_24&utm_medium=email&utm_term=0_0d38a7d305-ea766aac1b-213108113 


In effetti l'intervento di Trueman commenta un episodio accaduto in precedenza in un'università londinese e ripresa dal giornale The Telegraf, l'11.9.18, 
dal giornalista Patrick Sawer. 
Per leggere l’articolo originale del The Telegraf vai a: 




    As a new teacher at Grove City College, I thought it appropriate to start my upper-level humanities course by informing the students of my broad educational philosophy:

I am over fifty. I no longer care what anyone except my wife thinks about me. That particularly applies to anyone under the age of thirty-five. You should therefore feel free to disagree with me on anything I say because it is virtually impossible to offend me. But I must also add that, old and closed-minded as I am, I have no vested interest in holding an incorrect opinion on anything. Therefore, if you think I am wrong on some issue, be it historical, philosophical, or ethical, then you are under a moral obligation to persuade me to change my mind. But when you do so, please give me an argument, not some emotional plea based on your feelings. After all, if you simply feel I am wrong and I simply feel I am right, we’ll quickly find ourselves at an impasse.

That is my philosophy of education in miniature: I want to teach my students to think, which means the classroom must be a place where I challenge them and where they are free to challenge me. That is the only way true learning can be achieved in an ethical manner. It is not political, in that it privileges neither the right nor the left. It privileges only the common humanity of teacher and student. And yet it seems  such a philosophy is under increasing pressure from the usual suspects. In today’s world, loud voices claim that free inquiry and open discussion are no longer part of the solution to society’s ills; they have become the foundation of the problem.
Take, for example, the latest skirmish in the TERF Wars. At Goldsmiths University in London, LGBTQ activists have not only been waging a campaign to identify and presumably oust any faculty member who refuses to give unconditional support to transgender ideology. They have also suggested that any bigots who disagree should be dispatched to the gulags for re-education. Such silly analogies are common in the world of online polemics; what raises this silliness to the level of malevolent absurdity is that the students, after their proposal was criticized, attempted to justify it by claiming the gulags were compassionate educational institutions.    
The incident reveals catastrophic cultural and historical ignorance. This should not surprise. The humanities have been subject to ruthless politicization and concomitant trivialization over the years. I doubt those recommending the gulags have ever studied them. And I doubt they have taken the time to read Solzhenitsyn’s novella, One Day in the Life of Ivan Denisovich, or his magisterial Gulag Archipelago trilogy. Why would they bother, when their teachers have told them the history that portrays the gulags as morally significant has been constructed by white conservative males—men with a vested interested in rewriting history to disguise their own imperial atrocities?
Notably, this ignorance is closely tied to the wider questions of sex and identity highlighted by this incident. Long before the rise of transgenderism, Philip Rieff pointed to the anti-historical dimension of the sexual revolution, arguing that it depends on overthrowing historical norms of sexual behavior. It can involve specific acts that repudiate history. The example he gave was abortion. In a memorable if rather distasteful passage, he described abortion as a literal flushing away of the sexual act’s historical evidence. Transgenderism embodies this anti-historical tendency in its very repudiation of the body. Caitlyn Jenner is walking evidence of the desire to erase Bruce, just as every transgender person is a denial of the reality of his birth and prior life.
It is not surprising, then, that the transgender activists of Goldsmiths should prefer historical solecisms to Solzhenitsyn. History has only two functions for them: It is either an account of oppression to be overcome, or it is just another plastic body of evidence that can be twisted to fit any particular identity or policy which catches their fancy.
Above all, the incident reveals a different philosophy of education than the one I outlined to my class. It is not surprising that gulags appeal to such radicals because that is what they are trying to turn the university system into. The food might be better, the accommodation more pleasant, and with a three- to four-year sentence, the chances of coming out alive are pretty good. But the purpose is totalitarian: teachers of political orthodoxy cloning themselves through the student body. And that is a very dangerous tendency. 
I noted above that I want to teach my students to think. Others only want to teach their students to think like themselves. That contrast in educational philosophies could make the difference between a free society and one dominated by gulags, whether of the Siberian or university variety.


martedì 5 giugno 2018

SUL SESSANTOTTO. Di Rina Ceppi-Bettosini

In merito al dibattito sul '68, ospitiamo 
la testimonianza di Rina Ceppi-Bettosini uscita il 19 maggio 2018 
su "Il Giornale del popolo" che ringraziamo. 
 Il titolo è: "Liberté, Egalité, Fraternité… Mancava la Verité".






Ero un’adolescente dodicenne quando mi scoprii femminista. Avevo cominciato a sognare cosa avrei fatto da grande. Fin da piccola avevo desiderato studiare da maestra; ora però volevo diventare pilota d’aerei, viaggiare e fare tutte le cose da maschi. Cose semplici, intendiamoci, come non indossare il grembiule nero a scuola, non andare a Messa con il velo in testa, portare i calzoncini corti, giocare a calcio e alle biglie. Invece la tiritera era sempre la stessa: «Le bambine non fanno queste cose!» Ma io le volevo fare! «Non sarai mica una femminista», esclamò qualcuno. Doveva trattarsi di una cosa brutta, trasgressiva, come le parole che finivano con –ista che mio papà, da bravo conservatore, usava per indicare i nemici della religione. Ma se per realizzare i miei sogni di libertà occorreva essere femministe, bene, allora io sarei stata una femminista! 

Sedici anni: i cittadini svizzeri maschi votarono per decidere se concedermi il diritto di voto e di eleggibilità. Il mio spirito femminista lavorava a pieno regime in famiglia, nelle piazze del paese, a scuola. La domenica del 7 febbraio 1971 le urne sfornarono il sospirato sì. Evviva! Finalmente i maschi svizzeri si erano evoluti!
Durante gli anni di Preparatorio alla Magistrale la mia voglia di libertà si alimentava di nuove grandi parole come “Liberté, Egalité, Fraternité” e dello slogan preferito dai miei docenti di sinistra “religione, oppio per il popolo”. Mi ricordo che a religione scrissi un tema, in cui sostenevo convinta che Gesù fosse il più grande comunista di tutti i tempi, in quanto difendeva i poveri, prometteva guai ai ricchi e non faceva differenze fra uomini e donne. Il docente prete mi fece notare delicatamente che Gesù non poteva essere comunista, poiché era un fervente credente, addirittura il Figlio di Dio Padre e il comunismo negava per definizione l’esistenza di Dio. Dettaglio che mi fece riflettere; non riuscivo a concepire un mondo senza Dio. Tuttavia lo slogan marxista faceva presa su noi ragazzi, intenti a scrollarci di dosso vecchie e rigide norme morali, soprattutto in materia sessuale e di abbigliamento. La Chiesa stava perdendo terreno. Si facevano largo idee come “si può essere buoni cristiani anche senza andare a Messa tutte le domeniche e si può pregare e leggere la Bibbia anche da soli, in casa”, per approdare di lì a poco alla convinzione che “si poteva amarsi benissimo anche senza sposarsi in chiesa, anzi, senza sposarsi del tutto”. Strana coincidenza: agli inizi degli anni Settanta fra i miei compagni di scuola entrava in scena la droga, quella vera, non l’oppio di Marx...
Al liceo, durante le nostre contestazioni per una maggiore partecipazione degli allievi alle decisioni della scuola, spuntò una scritta pro diritto all’aborto. “Possibile che si rivendichi il diritto a uccidere?” pensai.
A Zurigo entrai per la prima volta in una libreria per le donne. Vidi una miriade di libri femministi, un concentrato di titoli, forieri di una umanità vagamente inquietante, che poco si conciliava con il “mio” femminismo. Se da un lato simpatizzavo con la letteratura che denunciava le ingiustizie di cui eravamo oggettivamente vittime noi donne, dall’altro ero perplessa di fronte alla radicalità di certe tematiche. Eravamo in pochi a leggere davvero autrici come Simone de Beauvoir e Alice Schwarzer, eppure il loro pensiero influenzava tutti con frasi lapidarie del tipo “donna non si nasce, lo si diventa” oppure “la pancia è mia (e ne faccio ciò che voglio)” e finiva per impegnarci in accese dispute sui contraccettivi, l’aborto, le donne discriminate, l’omosessualità, il libero amore.
Allora non ero consapevole di essere parte di una realtà ancora in embrione, che era però già stata formulata in precedenza da influenti teorici di una battaglia culturale marxista che avrebbe cambiato radicalmente la società. Solo anni più tardi scoprii per esempio che, mentre noi studenti si discuteva ancora di parità fra uomini e donne, di tolleranza verso le persone omosessuali e di maggiore comprensione per le donne che in certi casi particolarmente difficili sceglievano di abortire, già nel 1971 Shulamith Firestone in “La dialettica dei sessi” aveva scritto parole di fuoco, che avrebbero incenerito la nostra idealistica visione di progresso sociale: “L’obiettivo finale della rivoluzione femminista deve essere, a differenza di quello del primo movimento femminista, non solo l’eliminazione del privilegio maschile, ma della stessa distinzione dei sessi: le differenze genitali tra gli esseri umani non avranno più alcuna importanza culturale.” Scrisse nel 1955 José Ortega y Gasset in “El tema de nuestro tiempo”: “Da ciò che si pensa oggi (nelle università) dipende quello che si vivrà domani sulle strade e nelle piazze.”
Quanto aveva ragione!

Infatti: Marx ed Engels teorizzavano la deregolamentazione della sessualità come arma per abolire le strutture patriarcali basate sul matrimonio, la famiglia e il ruolo di donna-madre. L’emancipazione della donna e il suo inserimento nella catena di produzione esigeva che l’educazione dei bambini passasse allo Stato. Judith Butler, una delle massime teoriche del femminismo, nella sua opera “Questioni di genere”addirittura supera lo stesso femminismo, considerandolo solo una tappa intermedia verso il reale traguardo del dissolvimento dell’identità sessuale tout court, perché solo allora l’individuo arriverà alla totale emancipazione dalla dittatura della natura e potrà finalmente riconfigurarsi liberamente in ogni momento. Concetti come uomo e donna, matrimonio e famiglia, padre e madre, ma anche sessualità e fertilità vengono sganciati dalla loro peculiarità naturale, in quanto giustificherebbero l’egemonia dell’uomo sulla donna e dell’eterosessualità su tutte le altre numerose forme di sessualità. “Secondo la Butler, le famiglie non si costituiscono solo con il matrimonio e attraverso la discendenza, ma anche per mezzo di atti arbitrari di appartenenza momentanea. Nell’universo parallelo butleriano, i bambini non vengono concepiti ma “progettati” e prodotti con l’aiuto di tutte le possibilità tecniche disponibili, quali la donazione di sperma e di ovuli, la maternità surrogata, gli uteri artificiali e la manipolazione genetica”, si legge in “La rivoluzione sessuale globale. Distruzione della libertà nel nome della libertà” di Gabriele Kuby.
Ormai ci siamo quasi, no?
Ma tutto questo non ha più nulla a che fare con il femminismo che sognavo da giovane sessantottina in cerca di libertà. Non ci può essere vera libertà in una visione del mondo che si è congedata dalla verità costitutiva dell’umanità, dalla creatura binaria e meravigliosamente complementare.
Sulla bandiera della Rivoluzione Francese, accanto a Liberté, Egalité, Fraternité mancava una parola importante e manca pure su quella della Rivoluzione sessuale globale: Vérité!

giovedì 3 maggio 2018

LA LUPA CHE ALLATTA. Commento di Luciana Piddiu

Pubblichiamo il commento di Luciana Piddiu sull'episodio dell'oscuramento delle mammelle della lupa capitolina, nella partita Roma Barcellona (Teheran, aprile 2018)  

L’oscuramento delle mammelle della lupa capitolina, durante la partita Roma- Barcellona, trasmessa di recente dalla TV iraniana, ha suscitato molti commenti.


Per lo più ironici e divertiti, alcuni quasi impertinenti, come quello di Gianluca Nicoletti, su La Stampa, che immagina di equipaggiare con un bel paio di mutande il toro che compare nel simbolo della squadra del Torino. 
Ma se ci si interroga, al di là dell’ironia, sul significato profondo di quella censura c’è davvero poco da ridere. 
Quella scelta di cancellazione del seno rivela e svela un suo significato simbolico profondo. Il seno è per eccellenza il simbolo della femminilità. Il seno nutre e dà piacere, è la quintessenza dell’essere femminile. Conta poco che il seno in questione appartenga a un animale, la cosa scandalosa è che la lupa stia allattando due bambini. 
Il seno è donna e suscita il desiderio, lo genera: questo a Teheran, è ancora oggi, a dispetto della millenaria civiltà persiana, considerato una colpa. Il corpo della donna, desiderato e proibito, è una minaccia per l’ordine sociale costituito. E quell’immagine riprodotta sul gagliardetto della Roma, ricorda il desiderio e la proibizione ancestrale che riguarda proprio la relazione fra i poppanti e il corpo della madre. È il richiamo al corpo della loro madre, desiderata e interdetta, che ha turbato i censori della TV di stato iraniana. 
Da quel ricordo infantile trae origine l’inquietudine e l’angoscia nei confronti del corpo della donna considerato impuro e sporco. Per questa ragione la donna può circolare nello spazio pubblico solo se opportunamente velata. Il velo salva l’uomo da suoi stessi inconfessabili desideri. 
E diciamolo finalmente: per quanto abbia alle spalle una civiltà antica e raffinata, che onora i poeti e i cultori della lingua parsi, la teocrazia islamica dei mullah ha paura dei seni di una lupa. Censurandoli rivela la sua idiosincrasia, quasi paranoica verso gli esseri femminili, a dispetto della sua pretesa modernità. 
Ma i gesti, come i simboli, non mentono!