martedì 3 marzo 2020

MATRIMONIO OMOSEX PIU' FELICE?




In una società che non sopporta più la proposta di esempi di vita, trovano applicazione modelli sperimentali di convivenza sociale. Tanto che può anche capitare di ricevere, attraverso i mezzi di comunicazione, un’ispirazione da Stephanie Koontz, autrice di un’opera sul matrimonio, Marriage, a History: How Love Conquered Marriage, che ha conquistato anche le pagine del Corriere della Sera, dopo aver proposto, su The New York Times, i risultati di una ricerca sulle “buone pratiche” delle coppie omosessuali, da cui sembrerebbe emergere un clima di maggior serenità rispetto al vissuto delle famiglie naturali composte da un uomo e una donna.
Lo psicoanalista Giancarlo Ricci, nel volume Sessualità e Politica. Viaggio nell’arcipelago gender, offre invece altri criteri di valutazione sulla scelta preferenziale di un passaggio dal cosiddetto eterocentrismo all’omonormatività, cioè a una visione dell’omosessualità intesa come elemento portatore di pace nei costumi e nelle istituzioni. Andiamo più a fondo nella questione, ponendogli alcune domande.

Dottor Ricci, c’è un rischio di eterofobia nel vedere le relazioni fra uomo e donna come una fonte di violenza?

È più di un rischio. In queste ricerche intravedo nettamente un criterio che si basa su una serie di parametri indicatori di felicità e di benessere come se questi potessero essere quantificati e pertanto paragonati, valutati, misurati, e così via. Nella relazione tra un uomo e una donna c’è qualcosa che sfugge a qualsiasi parametro, se si tratta davvero di una relazione vera. In essa c’è sempre un elemento qualitativo singolare e unico. Altrimenti prevalgono criteri pragmatici o di semplice convivenza: la condivisione dei compiti domestici, il tempo che si trascorre insieme, la gestione condivisa dei bambini, dei propri spazi e via dicendo. Si tratta di un criterio improntato a una visione comportamentista e pragmatista dell’uomo che pretende di valutare se si verificano effetti gratificanti o di conflitto. In questa prospettiva ho l’impressione che venga affermata una certa idea di differenza sessuale e di statuto sessuale: come se la differenza tra i sessi, in quanto tale, fosse la causa che maggiormente produce conflitto, violenza o incomprensione. E che pertanto ostacola la felicità, la comprensione, la compattezza della coppia. Non è così. Se alla sessualità togliete la differenza tra i sessi, l’eteros, l’alterità, rimane ben poco, rimane l’autoerotismo, un piacere fine a se stesso, senza soddisfazione, antitetico a un’eventuale felicità. Non a caso la parola «felicità» proviene da «fecondità». L’incontro con l’altro sesso, con l’alterità, produce conoscenza di sé, avvia un processo interiore costellato da valori irrinunciabili su cui cresce l’umano.

Così si giunge a giustificare l’omogenitorialità: se la percezione è che i bambini siano meno trascurati all’interno di una convivenza fra persone dello stesso sesso, la conseguenza è che dovrebbero essere allontanati dai genitori per preservarli dall’insoddisfazione…

Sì, sono giustificazioni piene di paradossi. L’omogenitorialità è una scelta, come pure lo è la decisione di “avere” o di adottare bambini. Se ci si fa caso, le varie ricerche favorevoli all’omogenitorialità parlano sempre del benessere dei bambini. Il criterio prevalente è sempre e soltanto il benessere (spesso inteso come sinonimo di salute). E poi parlano solo di bambini, molto raramente di figli: prendono in esame soltanto l’età infantile, non tutto il ciclo di sviluppo che arriva fino all’adolescenza. Guarda caso, le ricerche non proseguono le considerazioni quando si entra nella fase più delicata relativa alla formazione dell’identità sessuale del ragazzo o della ragazza. È come se fosse un segmento di ricerca mancante o, meglio, volutamente trascurato. Direi, velocemente, che queste ricerche, insistono sul bambino proprio perché disconoscono lo statuto di figlio: il bambino è soprattutto un oggetto di desiderio condiviso tra due, il figlio introduce una posizione terza, altra, rivolta all’esterno. Presuppone un mito delle origini, una genealogia, un’inscrizione genealogica, una trasmissione del nome. Sono questi processi, con le proprie logiche, a garantire che ci sia un’alternanza delle generazioni. 

Forse può venire incontro qualche testimonianza sul tema, anche letteraria, come il volume autobiografico di Dawn Stefanowicz, Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay o la vicenda di Robert Lopez, che descrivono il disagio da loro vissuto e non certo a causa dell’omofobia. Ma, a proposito di questo, che tipo di organizzazione politica può nascere da legami affettivi fondati sull’omocentrismo, dove la differenza fra uomo e donna è considerata generatrice di problemi?

Non è soltanto la famiglia formata da un uomo e da una donna a essere messa in discussione. È qualcosa di più: tra l’altro anche lo statuto di figlio, per esempio, il quale è strutturalmente portatore di differenza (di idee, di pensiero, di progetti). Ho l’impressione che l’omogenitorialità rischi di diventare il modello di una sorta di famiglia fai-da-te, dove l’alterità e la differenza sono messi al bando. Più in generale, quasi rappresentasse un modello alternativo o trendy, credo che l’omogenitorialità possa diventare (e in parte lo è già) un modello idealistico nel quale i soggetti sono sempre più svincolati da legami sociali in nome di un individualismo estremo, soggettivistico. In nome del diritto alla libertà si attua una deresponsabilizzazione della libertà. Siamo nel mondo ipertecnologico del “mi piace”, dove tutto è permesso. Anzi, dove si afferma l’obbligo del “tutto è permesso”. Anche dal punto di vista della spesa sociale, della previdenza, il Welfare State sembra orientarsi verso una prospettiva egualitaristica che all’apparenza è considerata vantaggiosa, ma che alla lunga temo si rivelerà devastante, dal punto di vista sia del soggetto sia sociale. L’applicazione sistematica e impositiva di scelte o politiche “sanitarie”, sociali ed educative ispirate ai criteri gender viene considerata, ormai per molti, una modalità omologante e uniformante: il soggetto, i genitori stessi, vengono spossessati di un diritto proprio e di una soggettività propria in nome di un modernismo ipotetico che pretende, non senza tornaconti, di monopolizzare l’umano.

lunedì 2 marzo 2020

LIBERTA' IN GABBIA


Di COSTANZA MIRIANO pubblichiamo (ringraziandola)
il suo intervento tenuto al
Convegno "LIBERTA' IN GABBIA ?" organizzato
il 18.1.2020 a Milano
dall'Associazione Nonni 2.0



C’è effettivamente una sorta di egemonia del pensiero unico, grazie alla saldatura  tra le classi dirigenti, politiche, intellettuali e mediatiche. Anche negli esiti delle ultime elezioni, per esempio la Brexit, c’è stato uno schieramento totale dei media. Anche lo schieramento mediatico contro Trump, che ha avuto un esito, come sappiamo, opposto, ci dimostra che la cooptazione del pensiero non è ancora compiuta. Non voglio dire che siano giuste né le elezioni di Trump né la Brexit, non è il luogo per esporre il mio pensiero in merito, ma che comunque c’è ancora la libertà di pensare, secondo me,  nonostante questo tentativo di indottrinarci continuo, anzi forse c’è una reazione a esso.
Per esempio, leggevo che lo show più visto in America in questo momento è quello di un comico, il più visto su Netflix. E’ un comico che si chiama Dave Chapelle. Fa battute politicamente scorrettissime e la gente finalmente può ridere e anche sentir dire ad alta voce quello che pensano tutti. Lui dice che a New York ormai gli spacciatori neri del Bronx si mettono i tacchi alti perché se sembrano dei trans la polizia non li tocca. E questo è qualcosa che cerca di scardinare la narrazione  sulla omosessualità che fonda la sua base più forte, la base principale, sulla narrazione vittimistica, quindi su un presunto dilagare dell’omofobia.
Il vittimismo sembra funzionare sempre. Per esempio, leggevo ieri che, dopo che Zingaretti si era pronunciato contro l’utero in affitto, la senatrice Cirinnà ha subito detto: “non devono pagare i bambini nati in un altro modo”. Ovviamente nessuno ha mai detto questo, noi non siamo contro i bambini nati dall’utero in affitto, ma siamo contro il fatto che ne nascano altri, cioè che altri bambini vengano privati della madre.
A questo proposito credo che sia molto utile l’indicazione
dell’Avvocato Respinti sul fatto di basarci sulla realtà, cioè raccontare la realtà. Io mi ricordo che quando lessi il libro di Mario Adinolfi ‘Voglio la mamma’ non è che avessi un’opinione molto chiara sul tema, non me l’ero neanche tanto posto il problema, però mi ha colpito tantissimo il racconto di come avviene questa pratica e quindi di ciò a cui vengono sottoposte le donne. Diceva che le donne vengono sedate – invece di solito si ha questa immagine romantica della madre che si offre generosamente -, ma quando uno vede la carne, il sangue, i soldi, la sofferenza che ci sono dietro questa cosa, i bambini concepiti e poi uccisi nei tentativi, cioè tutti gli embrioni sacrificati, le donne che vengono sottoposte ad anestesia totale e che non di rado riportano  danni permanenti… Questa parte non viene raccontata, viene raccontata solo la parte romantica di una donna che si offre generosamente, ma dietro c’è una storia proprio concreta, anche medica, terribile.
Le mie figlie, purtroppo, sono appassionate di una serie che si chiama ‘Friends’ e che io vent’anni fa vedevo con mio marito con un occhio diverso, divertendomi, ridendo. Adesso ho un’altra consapevolezza e anche con tutta la storia che c’è stata dopo mi sono resa conto che ha messo i semi di tante correzioni politiche del pensiero. Per esempio, anche lì c’è una dei protagonisti che porta nel grembo tre gemelli per un fratello e questa cosa è raccontata in modo molto allegro, carino. Tutte le volte che le mie figlie la vedono io mi metto lì con loro e faccio la contronarrazione. Infatti mi dicono: “mamma, ti prego…ce l’hai detto mille volte…..”. Allora io dico: “Se la volete vedere, vi dovete sorbire anche la mamma che predica..”

Per esempio, la senatrice Cirinnà che è a favore dell’utero in affitto, quando era assessore al comune di Roma e si occupava anche degli animali, aveva stabilito un’ordinanza per cui i gattini non dovevano essere separati dalla mamma prima dei sessanta giorni dal parto, mentre per i bambini questo è permesso. Questo perché tutto viene raccontato con questo colore di vittimismo dal punto di vista dei poveri genitori che non possono avere un figlio.
Anche la strage di  Orlando da cui parte poi il libro di Padre Martin “Building a bridge” sul fatto che la Chiesa dovrebbe costruire un ponte verso le comunità Lgbt (che già avrei da ridire su ognuna di queste parole perché Lgbt secondo me è un’espressione offensiva dal momento che definisce le persone in base al loro orientamento; pure sui ponti avrei da dire qualcosa). Comunque, a proposito dell’episodio della strage di Orlando, che è stata raccontata come una strage omofoba perché è avvenuta in un locale frequentato da scambisti omosessuali, si è poi scoperto che invece era uno di loro che si vendicava per una storia d’amore andata male.
Il modo di raccontare tutte queste vicende è sempre fatto senza la tara della realtà. Occorre raccontare che spesso le relazioni sono promiscue, volatili, raccontare quello che succede veramente in questi locali.
Un altro modo secondo me assurdo di raccontare da parte di noi giornalisti: quando viene aggredito qualcuno, se manifesta tendenze omosessuali, si dice sempre che è stato aggredito perché gay. Molte volte poi si scopre che non era vero. Recentemente, qui a Milano, uno è stato derubato e il fatto che fosse omosessuale era un dato accidentale. E’ stato derubato come veniamo derubati tutti noi. Anche a me,  sulla metro, non perché etero,  hanno rubato il portafogli,  punto e basta.
Oppure, una storia che a Roma ha tenuto banco per tanto tempo perché raccontata da siti di attivisti: il ragazzo con i pantaloni rosa che si era suicidato in un liceo scientifico romano e poi si è scoperto che era un ragazzo probabilmente respinto da una ragazza e che comunque non era quello il motivo del suicidio. Poi bisogna andarci con i piedi di piombo.
E’ fondamentale raccontare con correttezza e rispetto questi temi. Tutto quello che non aderisce ad una narrazione messa insieme da questa saldatura tra le classi dirigenti politiche, intellettuali, soprattutto mediatiche, tutto ciò che non aderisce alla versione ufficiale dell’ infocrazia è percepito come violento.
Ieri sentivo la dichiarazione dei neo-ministri spagnoli che dicevano che ai genitori omofobi bisogna togliere i figli perché i bambini hanno il diritto di essere educati secondo i principi riconosciuti dall’infocrazia. Secondo me questa è un’affermazione di una gravità inaudita, e, soprattutto, chi definisce l’omofobia? Credo che nessuno di noi abbia niente da obiettare sulla vita privata delle persone, non possiamo però essere costretti ad aderire a quella narrazione, pena addirittura vederci presi i figli. Cioè le persone che provano attrazione verso lo stesso sesso possono ovviamente fare quello che vogliono, ma non possono imporre a me di avere un’opinione al riguardo, se espressa con rispetto.
Io non faccio statistiche, per cui il mio punto di vista è
assolutamente personale, però quando vado in giro raccolgo esperienze. Sono stata da poco in un liceo, io ero andata perché pensavo che avrei parlato. Invece poi i professori, che non erano contenti di avermi lì, hanno trasformato la cosa in un dibattito con gli studenti. Io dovevo parlare di amore per sempre, ma a un certo punto una ragazza ha preso la parola, un po’ seccata e ha detto: “io comunque sono lesbica” e i ragazzi hanno fatto un applauso, la ola, proprio. Lo racconto per dire che non c’è proprio nessuno stigma sociale in questo momento, almeno da quello che io percepisco. E anzi è stata una condotta violenta e prepotente, come spesso sono quelle degli attivisti lgbt, per prendere la scena e monopolizzare il dibattito, quando invece si doveva parlare di tutt’altro.
I miei figli sono stati educati a un pensiero critico su questo, potranno avere le loro opinioni, ma senza bersi tutto quello che viene loro propinato. Invece mi sembra di capire che i loro compagni di classe, o anche i miei nipoti, hanno proprio il pensiero conformato totalmente al pensiero unico. Non c’è nessuno stigma, anzi, adesso è di tendenza. Avrei voluto dirle: “Tu hai diciassette anni, non sei lesbica, sei una ragazza che, casomai, prova attrazione per il tuo sesso, ma tu sei molto di più, molto altro”.
C’è un famoso libro di Daniel Mattson, ‘Perché non mi definisco gay’. Dice che è offensivo essere definito gay perché una persona non è definita dalla propria attrazione, una persona è una persona con una storia, una complessità. Nessuno di noi si definisce etero. Io sono Costanza e basta, non sono la mia attrazione.

Anche se si raccontano con pose vittimistiche, gli Lgbt sanno bene che la miglior difesa è l’attacco. E cosi anche se non si devono difendere da nulla, nessuno li accusa di nulla, loro attaccano. Adottano una violenza opposta che mette sotto accusa chiunque. Ricordiamo tutti il caso Barilla, che si era macchiato della colpa “gravissima” di non usare immagini di famiglie, o meglio aggregati di persone, dello stesso sesso. Questa era stata la sua macchia e lui aveva risposto dicendo: “preferiamo la famiglia tradizionale” (io avrei da dire anche sul termine tradizionale). E’ un’affermazione legittima, uno fa pubblicità come vuole. Invece lui è stato costretto – moralmente costretto dalla pressione di opinione – a una serie di passi per scusarsi, e li ha fatti così coscienziosamente che addirittura Human Rights Watch ha trovato che la sua controcampagna di correzione fosse stata proprio massiccia. Barilla  ha fatto degli investimenti molto sostanziosi favorendo anche i dipendenti lgbt, insomma sono anni che combatte per cancellare questa affermazione che, secondo me,  è legittima perché uno con la propria azienda può fare pubblicità come crede.
Un altro caso è quello dello psicologo Ricci, che è stato per

fortuna alla fine assolto, però ha dovuto subire un calvario per aver detto che l’uomo ha bisogno  di una figura paterna e di una materna. Tra l’altro lui, a differenza di me, ha tutti gli strumenti per dirlo, perché titolato professionalmente, ha a che fare con le storie delle persone, le ascolta e può dire con cognizione di causa quello che può lasciare l’assenza del padre o della madre nella vita di una persona.
Un altro caso è quello dell’attivista  David Daleiden,  quello che ha smascherato i traffici di Planned Parenthood, la catena di cliniche abortiste americane. E’  andato a registrare colloqui con gli operatori delle cliniche e ha scoperto che c’era un commercio di organi di bambini uccisi e hanno subìto, lui e i suoi colleghi, quando hanno tirato fuori questo caso, 2,2 milioni di dollari di richiesta danni anche se in realtà lui ha detto la verità, tutto quello che ha denunciato è vero, solo che per dimostrarlo a volte ha presentato una patente falsa, che so, per poter entrare in clinica, oppure ha registrato conversazioni senza dirlo. E’ stato condannato, anche se le accuse sono state confermate.
Un’altra, non so se ne avete sentito parlare, è un’ostetrica inglese Lindsey Maccarthy Calvert, che ha scritto che l’Associazione ginecologi aveva ricordato che  ‘il pap test era rilevante per persone tra i 25 e 64 anni con una cervice’.  Lei ha detto: “Io non sono una persona con una cervice, sono una donna. Il pap test lo fanno le donne”. E’ stata denunciata per discriminazione. Dei trans l’hanno denunciata. Le hanno tolto l’incarico di portavoce dell’Associazione Ostetriche inglesi perché aveva detto che solo le donne partoriscono.
Un altro caso è quello di Silvana De Mari. Non posso riportare le sue affermazioni perché è stata condannata, al momento. Però l’ho sentita in altri casi parlare e lei si limita a raccontare,  da medico, da gastroenterologa, chirurga e anche psichiatra, relativamente ai rapporti omosessuali, che il corpo dell’uomo non è fatto per avere quel tipo di rapporti. Tante volte racconta e fa vedere le foto delle lesioni che procura un rapporto omosessuale. Quindi anche questo che viene raccontato in questo modo romantico, ‘love is love’, in realtà è qualcosa che fa male, proprio fisicamente, al corpo dell’uomo e questo toglie ogni dubbio sulla naturalezza del rapporto. Poi non è un giudizio di merito, ma per rimanere alla raccomandazione dell’avvocato Respighi, è un dato di realtà, è un fatto medico.
Il titolo di oggi è ‘La libertà in gabbia?’. Io direi che non tutta la libertà è in gabbia, ma solo quella di esprimere un certo tipo di pensiero.
L’altro giorno ho letto che a Siena un gruppo di persone ha protestato perché c’era un incontro con Antonio Socci e Diego Fusaro, tra l’altro un incontro molto affollato, e fuori c’erano persone che protestavano per questo. Io immagino, con altri esponenti di una diversa appartenenza di pensiero, se qualcuno fosse andato a protestare per l’incontro si sarebbe gridato alla censura. Ci avrebbero aperto i quotidiani, si sarebbe scatenato un finimondo. Giustamente, perché non si può protestare perché delle persone espongono delle idee, civilmente, stando nei limiti del diritto ovviamente, parlando di un loro libro. In realtà è in pericolo un certo tipo di libertà, sicuramente la libertà religiosa.

In Georgia e South Carolina hanno approvato delle leggi sulla libertà religiosa e per tutta risposta alcune grandi società come Paypal, Facebook, Google hanno disinvestito in questi Stati americani e questo ci dovrebbe far capire da che parte sta la verità. E’ che questo modello di uomo senza legami, liquido, che non abbia stabilità è un modello funzionale ad un certo tipo di modello economico. Un uomo, una donna che non hanno radici, non hanno famiglia, possibilmente, sono pronti a un consumo che è immediato. La famiglia, invece, ti incoraggia a risparmiare, a investire in beni più duraturi, a non comprare l’ultimo modello di cellulare, l’ultima trovata tecnologica. Invece, questo è un tipo di modello di uomo senza identità, senza stabilità, il ragazzo ‘Erasmus’.

Io devo dire che già quando facevo l’università, mi sono iscritta nell’ ’89, trovavo assurda questa idea dell’Erasmus.  Studiavo lettere classiche e mi dicevo: “Sto in Italia, ma che vado a fare? Più cervelli di così. L’Italia è la culla dei miei studi, che vado a fare altrove?”.  Effettivamente, credo di aver studiato abbastanza bene, abbiamo università di tutto rispetto, non ho questo mito dell’estero. Ricordo che quando era Ministro dell’Istruzione, mi sembra con il governo Renzi, la Giannini, avevo letto questa esaltazione di ragazzi pronti a partire, pronti a stare un anno o due fuori e poi anche a lavorare per due anni qua, due anni là. Se penso ai miei figli, per esempio, è la prospettiva che mi rattrista di più perché, invece, avere delle radici, un’appartenenza, un legame con la famiglia ma soprattutto la possibilità di costruirne una nuova, stabile è importante. Conosco molti casi di ragazzi che si sono conosciuti all’estero e che poi hanno seguito le diverse carriere continuando a spostarsi, ciascuno seguendo la propria carriera. Come fai ad avere dei bambini? Credo che se ci sono opportunità buone, un motivo serio, valga la pena, ci si può organizzare, probabilmente uno dei due dovrà fare delle scelte. Ma non è che il partire in sé sia un valore, è una cosa che si può fare nonostante il dispiacere di lasciare le radici, ma non è che essere senza radici sia un valore come oggi viene raccontato. Cambiare, sperimentare, non è un valore in sé.
Poi volevo dire che a questa saldatura tra la politica e l’informazione contribuisce purtroppo anche la scuola. Tutti voi, penso, avete figli o nipoti in età scolare. Io sono inorridita da tutto quello che raccontano i libri di scuola oggi. A parte che sono infinitamente più semplificati rispetto a quelli di trent’anni fa, ma, a maggior ragione, immagino, rispetto a quelli di prima. Raccontano una realtà a senso unico. Per esempio, su tutti questi temi caldi, l’ecologia, le migrazioni, la vita, la realtà è raccontata a senso unico. I miei figli, quando mi ripetono la lezione studiata, poi dicono: “e invece?” Perché sanno che dopo c’è sempre almeno qualche correzione di rotta da fare. Qualche complessità da far intuire. Comunque spero di insegnare, e in questo mio marito è sicuramente più bravo di me, un pensiero critico, che è poi quello che dovrebbe insegnare la scuola che solo in minima parte dovrebbe infilare contenuti, ma dovrebbe accendere il desiderio di sapere e lo spirito critico. Nella mia esperienza, questo è totalmente sparito dai libri scolastici. C’è una semplificazione, una caduta a picco del livello di studio impressionanti, sempre al ribasso, sempre inclusivo nel senso deteriore del termine. Tutti devono essere necessariamente promossi anche per rispettare le direttive europee, quindi si rallenta continuamente il ritmo di studio, il livello delle prestazioni richieste.
I miei figli dicono che io sono molto più cattiva dei professori. Tante volte sono andata a protestare per le interrogazioni programmate, perché questi ragazzi studiano solo quando sanno di essere interrogati. I professori annunciano tre mesi prima che interrogheranno, così i ragazzi per due mesi e 29 giorni non studio. “Se non faccio così non mi vengono all’interrogazione” – dicono a volte.  “Ma come non vengono? Lei cominci a mettere 1, 2, 3 al massimo. Vedrà come vengono. Rimandate, bocciate, vedrà che poi si svegliano”.
In realtà, come ha raccontato benissimo Luca Ricolfi nel libro ‘La società signorile di massa’ questo declassamento della scuola è funzionale a un disegno, cioè al fatto che molti oggi vivono sfruttando le ricchezze accumulate dalle generazioni precedenti e poi anche grazie a una struttura che lui chiama ‘paraschiavistica’ di immigrati che forniscono la manodopera a costi bassissimi, per le consegne a domicilio, per tutti i lavori più umili e tutto concorre a quello che dicevamo prima. Un uomo privo di radici, di un disegno a lungo termine, senza dignità, senza stabilità.
Infine volevo citare il caso di Kelvin Cochran, che è stato il vigile del fuoco più noto, addirittura Obama l’aveva chiamato a dirigere i vigili del fuoco di tutti gli Stati Uniti d’America.  Ha vinto mille medaglie, riconoscimenti. Era stato un ragazzino senza padre che una volta aveva visto davanti a casa sua dei vigili del fuoco che portavano in salvo una donna sola e si era innamorato di questo lavoro e l’aveva fatto con questo spirito. E’ cristiano, quindi aveva distribuito al lavoro un libro che esprimeva la sua visione del mondo cristiana; sull’uomo e sulla donna aveva affermato (orrore!) che un’unione è fra uomo e donna dentro il matrimonio. E’ stato prima sospeso e poi licenziato, e solo dopo una lunga battaglia giudiziaria è stato riammesso al suo posto. E tutto ciò, nonostante fosse stato appunto un vigile del fuoco esemplare, eroico e solo per aver espresso le sue idee sulla relazione uomo-donna. C’è veramente un clima difficile, credo forse più all’estero che da noi, ma purtroppo abbiamo imparato già in altri casi che arriviamo dopo, però di solito arriviamo.
Voglio chiudere con un’immagine di speranza perché, come dicevo all’inizio, di questo comico che riempie i teatri, che è il più cliccato su Netflix, c’è anche un sito in America che si chiama Babylon Bee. E’ un sito satirico che non si omologa al pensiero unico e ha fatto un tweet dicendo :” I democratici hanno messo la bandiera a mezz’asta per l’operazione in Iran con l’uccisione di Soleimani” e questa battuta è stata scambiata per una notizia, e quel giorno è stata la più cliccata in America,  più anche degli articoli del New York Times su questo. Era uno scherzo sul fatto che i democratici odiano così tanto Trump che preferiscono i nemici degli usa a lui. Anche qui non voglio entrare nel merito della vicenda, a dire il vero piuttosto complicata. la mia è una riflessione sul fatto che su certe cose non si può neanche scherzare. Babylon Bee è stato sommerso di critiche, c’è stata una levata di scudi, i siti esperti di fact checking sono intervenuti contro questo sito, ma non si può fare il fact checking a una battuta! Sul fatto che anche la CNN è intervenuta gli autori di Babylon hanno commentato: “La CNN non ci vuole perché in rete c’è spazio per un solo sito di fake news, quindi esistono solo loro”.
In generale, questo successo dei siti politicamente scorretti è un segno, mi pare, del fatto che la gente non ne può più di politicamente corretto, quindi quando trova qualche area di libertà la frequenta volentieri per respirare una libertà, anche questa libertà di scherzare. Il sito corrispondente di Babylon Bee, a sinistra, è Onion (la cui battuta più celebre è quella su Sarah Palin, che diceva che riusciva a vedere la Russia dalla sua finestra perché era nota la sua abbondante incompetenza in politica estera). Su Onion c’è molto minore controllo e maggiore tolleranza. Però, controlli a parte, il successo di chi osa scherzare sul politicamente corretto ci dice che la libertà non è morta, anzi ce ne è in giro un desiderio sempre più diffuso.

lunedì 10 febbraio 2020

SULLA DISCRIMINAZIONE SESSUALE. Referendum in Svizzera il 9.2.2020




Accogliamo l'intervento di Rina Ceppi-Bettosini sulla proposta di un'iniziativa parlamentare, già approvata in parlamento, a cui il popolo svizzero è stato chiamato a esprimere il voto il 9 febbraio, dopo aver impugnato il referendum.
Si tratta di una proposta di ampliamento
della già esistente legge antidiscriminazione che vuole
estendere  nella lotta contro  la discriminazione anche l'ambito  dell'orientamento sessuale.


Io comunque voterò NO di Rina Ceppi-Bettosini (31.01.2020) 

Al di là di ogni schieramento politico mi preme soprattutto la ricerca della verità sulle cose. Per farmi un’idea sulla proposta di estendere la legge antidiscriminazione alla sfera dell’orientamento sessuale mi sono informata sui Paesi in cui tale legge è già applicata. Condenso le mie perplessità in alcuni ipotetici scenari, che sollevano domande di scottante attualità.
Sono un panettiere, pasticciere, macellaio, ristoratore, albergatore o fotografo (vale chiaramente anche al femminile) e naturalmente servo la mia clientela senza chiederne l’orientamento sessuale. Un giorno, probabilmente non lontano, mi viene chiesta una prestazione in netto contrasto con le mie convinzioni religiose, come per esempio un servizio legato al matrimonio fra due persone omosessuali. Se pur educatamente io declinassi l’incarico per coerenza alla mia fede cristiana o islamica, in base a cui il matrimonio riguarda esclusivamente l’unione fra un uomo e una donna, sarei tutelato dal mio diritto alla libertà religiosa oppure incapperei in rovinose sanzioni penali con il relativo linciaggio mediatico? Vedrei compromessa la mia esistenza, come si osserva in Paesi dove la legge in questione è già realtà?
Sono municipale e ufficiale di stato civile. Un giorno sarò chiamato a celebrare il matrimonio di una coppia di persone omosessuali, ma la mia fede chiederà coerenza. Dunque? Stesso scenario come sopra?
Sono medico, pediatra, chirurgo, epidemiologo, specialista in neuroscienze e la mia professione mi porta a dati scientifici e medici che confliggono con la visione dei nuovi diritti sessuali. Avrò il coraggio di esporre pubblicamente la mia esperienza professionale a costo di irritare il pensiero dominante, con la temibile prospettiva di ostracismo? La spirale del silenzio, teorizzata dalla nota analista sociale Elisabeth Noelle Neumann, agisce ormai fin troppo bene anche in Svizzera.
Sono una persona omosessuale dichiarata e convivo con il mio o la mia partner. Contrariamente agli attivisti omosessualisti sono dell’idea che una coppia di omosessuali non dovrebbe avere figli, perché da quando mondo è mondo i figli sono sempre nati da un padre e una madre. Già ora è un grosso rischio affermare in pubblico tale ovvietà (Dolce&Gabbana insegnano), ma in futuro potrò ancora affermarla senza rischiare la prigione per pubblica offesa al presunto diritto al figlio delle coppie omosessuali? E se aggiungessi che anche da omosessuale non approvo affatto il business degli uteri in affitto, perché lo considero un vero e proprio sfruttamento delle donne economicamente svantaggiate e un traffico aberrante di esseri umani, commissionati e comprati come fossero merce, cosa mi dovrei aspettare? Si è affermata l’idea che il così detto mondo LGBT sia una comunity, una comunità compatta, ma non è così. C’è chi ha cercato e ritrovato un proprio equilibrio e una propria identità fuori dai binari dettati dall’attivismo LGBT e si sente discriminato perché non trova spazio di discussione nei massmedia. Perché non lo trova?
Se penso a cosa ne ha viste il noto psicanalista e psicoterapeuta milanese dott. Giancarlo Ricci per aver affermato nel 2016 nel talk show «Dalla vostra parte» che «la funzione di padre e di madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita [del figlio]» ! Un procedimento disciplinare da parte dell’Ordine degli Psicologi, insulti sui social e tre anni di logorante pressione psicologica, professionale ed economica. Il dott. Ricci ha analizzato la sua vicenda nel saggio Il tempo della postlibertà. Destino e responsabilità in psicoanalisi (Sugarco 2019). Da leggere!
Mi chiedo: quale diritto dovremo inventare per proteggere la libertà di ricerca e di discussione scientifica dalle pressioni ideologiche di turno?
Invece di frammentare all’infinito l’umanità in una lista sempre più lunga di minoranze da proteggere, perché non ci impegniamo seriamente a costruire una società rispettosa di OGNI essere umano? Lo so, ci vuole molta fantasia, ma soprattutto occorrono i criteri giusti. Forse dobbiamo trovare proprio quelli.
La discussione è vitale per la democrazia, ma evitiamo di cadere nell’errore di bollare di retrogrado medievale chi è contrario al testo in votazione. Al Medioevo dobbiamo la nascita delle Università, degli ospedali, la riscoperta dei grandi testi classici, un patrimonio inestimabile di beni artistici e architettonici e tanto altro. Il progresso non è monopolio assoluto di chi si autodefinisce progressista. Il progresso è compito, responsabilità e merito di tutte le forze politiche e culturali di una società e frutto di un’intelligente, franca, coraggiosa e faticosa ricerca di equilibri. Ecco perché l’educazione alla libertà di opinione ed espressione è fondamentale e dovrebbe sempre essere garantita dalla legge, coltivata in famiglia e nella scuola. 
Soprattutto, facciamo uso del nostro diritto di voto! Se va a votare poco più di un terzo e di questo terzo poco più della metà decide le sorti del nostro Paese, che senso ha? Non assomiglia piuttosto alla dittatura di una minoranza, liberamente scelta da una maggioranza passiva?
Io comunque voterò NO. 

mercoledì 29 gennaio 2020

GLI STUDI SULL'ODIO. Paradossi, parodie e caricature


Pubblichiamo di seguito uno "studio" americano presentato 
sulla rivista MICROMEGA dal prof. VINCENZO ROMANIA
che insegna Sociologia all'Università di Padova.


 La caratteristica di questa ricerca è che si tratta di una burla organizzata da tre docenti universitari per dimostrare i punti deboli e critici di quelle correnti, così alla moda nelle Università americane, che si dedicano ai cosiddetti grievance studies così come ai queer studies, gender studies o sexual studies.
Così le punte più avanzate del politicamente corretto si fanno
strada per affermarsi come verità ultime nelle scienze sociali.

Del resto nel nostro paese l'enfasi mediatica, generica e indifferenziata, con cui si celebra la condanna dell'odio, di
qualsiasi odio, meriterebbe diverse riflessioni. L'equivalenza tra odio e razzismo, tra odio e nientificazione dell'altro, tra odio e massacro rischiano alcuni malintesi.

L'assenza di distinzioni e di differenze nel concetto stesso di odio mostra il volto dell'esecrazione e del pensiero unico.



Il rancore e il valore: dai grievance studies all’epistemologia delle scienze sociali


di VINCENZO ROMANIA

La burla di Lindsay, Boghossian e Pluckrose ai danni dei cosiddetti “grievance studies”, gli studi del rancore (queer theory, gender studies, sexual studies) ha avuto successo, ma i suoi risultati non dimostrano quanto pensano gli autori, bensì l'odierna mercificazione del sapere scientifico e la conseguente destituzione della scienza quale sapere critico legittimato.

Il caso

Nell’agosto 2017, tre ‘accademici impegnati’ come si autodefiniscono James Lindsay, Peter Boghossian ed Helen Pluckrose [1] danno vita a un esperimento di hoaxing, ovvero una burla intenzionale volta a colpire l’autorità e la reputazione di chi ne è vittima. In particolare, se la prendono con quelli che definiscono “gli studi del rancore” (grievance studies), egida stigmatizzante sotto cui riuniscono approcci e oggetti di studio diversi quali: il femminismo, la queer theory, i gender studies, i sexual studies, oltre a interi campi disciplinari: la sociologia e l’antropologia.

La burla consiste in questo. In poco meno di dieci mesi redigono venti articoli scientifici volutamente viziati da basi dati inventate, tesi bizzarre e più che discutibili principi etici. Quindi, li sottopongono, usando degli pseudonimi, a una serie di riviste scientifiche dei settori presi di mira. Gli autori le definiscono come “riviste di alto rango”, ma si tratta in gran parte di riviste interdisciplinari, con una reputazione internazionale in quasi tutti i casi medio-bassa [2]. Scopo dichiarato dell’esperimento è dimostrare come in certi settori “il sapere si basi meno sulla ricerca della verità e più sulla riconferma del rancore sociale, fermamente stabilito, se non del tutto dominante”. L’attacco è diretto a ciò che viene descritto come un sapere critico che, nel fideistico tentativo di invertire i rapporti di potere vigenti nelle società occidentali, finirebbe per “bullizzare studenti, amministratori e altri dipartimenti, costringendoli ad aderire alla loro visione del mondo”. Gli autori affermano che gli studi del rancore stiano anzi “corrompendo la ricerca accademica”, ove una “sana e aperta conversazione su temi identitari quali genere, razza e sessualità (e sul sapere che gravita attorno a essi) è [diventata] pressoché impossibile”.

Prima che l’intero esperimento giunga al termine, nel luglio 2018 il progetto s’interrompe. Su twitter, Real Peer Review segnala ironicamente la pubblicazione dell’articolo “Human Reactions to Rape Culture and Queer Performativity in Urban Dog Parks in Portland, Oregon”, sulla rivista Gender, Place and Culture. Fallito il controllo a posteriori sulla falsa identità dell’autrice (Helen Wilson), la rivista ritira l’articolo. 

L’evento ha un grande risonanza nell’opinione pubblica americana. Se ne occupa anche il Wall Street Journal, che vi dedica un eloquente editoriale intitolato “Le fake news sbarcano nell’accademia” [3]. A questo punto Boghossian, Lindsay e Pluckrose iniziano a raccogliere le loro idee e a pubblicare un lungo articolo sul magazine Areo che presenta estensivamente i risultati della loro sperimentazione e da cui traggo gran parte delle citazioni contenute in questo articolo.

Ad oggi, quattro dei venti articoli sottoposti a riviste scientifiche son già stati pubblicati, tre son stati accettati ma non ancora pubblicati; altri sette sarebbero, secondo gli autori, in una situazione di “revise and resubmit” e soltanto sei sarebbero stati bocciati perché “fatalmente imperfetti o irrecuperabili”. Degli altri sette articoli sotto revisione, almeno tre sarebbero ‘certamente pubblicabili’ e un altro paio in attesa di una decisione da parte dell’editor. Altre valutazioni sembrerebbero invece smentire tale previsione [4] e limitare il successo dell’esperimento ai soli sette articoli già pubblicati o in via di pubblicazione.

Di seguito, presenterò il contenuto degli articoli pubblicati o accettati, discuterò della fondatezza delle accuse e dei loro risvolti pragmatici e userò il caso per dibattere, brevemente, della svolta capitalistica del sapere accademico e del rapporto fra scienze sociali e valori, a partire da un recente articolo di Andrew Abbott [5].

Il contenuto degli articoli

Una volta esploso il caso, come era ovvio che fosse, tutte le riviste hanno ritirato gli articoli prodotti nell’esperimento. Ciò nonostante, è fondamentale comprendere il contenuto per ricostruire le premesse della burla orchestrata da Boghossian, Lindsay e Pluckrose.

Il primo articolo pubblicato è il già citato “Human Reactions to Rape Culture and Queer Performativity in Urban Dog Parks in Portland, Oregon” [6]. Ivi gli autori sostengono la tesi bizzarra che i parchi canini rappresentino degli spazi di espressione di una cultura maschilista (canina e umana) e che il diverso peso dato dai padroni agli “stupri” omosessuali fra cani, rispetto agli omologhi eterosessuali, dimostrerebbe il peso di alcuni bias omofobi e misogini diffusi nella società americana. La metodologia utilizzata è quella dell’etnografia.

“Going in Through the Back Door: Challenging Straight Male Homohysteria and Transphobia through Receptive Penetrative Sex Toy Use” [7] sostiene la tesi che incoraggiare gli uomini eterosessuali a praticare la masturbazione anale possa limitare la loro transfobia e avvicinarli ai valori femministi.

“Who Are They to Judge? Overcoming Anthropometry and a Framework for Fat Bodybuilding” [8] sostiene la tesi che anche il corpo obeso possa essere considerato legittimamente e al pari di un corpo muscoloso, un esempio di body-building.

“An Ethnography of Breastaurant Masculinity” [9], sostiene che le dinamiche di oggettivazione del corpo femminile messe in atto dai frequentatori di questa sorta di topless restaurants possano problematizzare l’attrazione eterosessuale degli uomini verso le donne. Il target metodologico è ancora l’etnografia.


Fra gli altri esperimenti di articoli accettati ma non pubblicati il più significativo è “Our Struggle is My Struggle”, accettato da Affilia, rivista femminista del settore del servizio sociale, a nome di Maria Gomez (pseudonimo). In questo caso, gli autori hanno usato 3600 parole di un capitolo del Mein Kampf di Hitler, rincorniciandole secondo una prospettiva intersectional per avvalorare la tesi che il femminismo sia una lotta collettiva, più che individuale.

Fra gli articoli dichiarati dagli autori come ancora in fase di accettazione, invece, il più significativo è “Progressive Stack” proposto al giornale femminista Hypatia [10]. L’assurdità in tal caso è etica: si suggerisce, in un’ottica di riparazione dei privilegi razziali e di genere, di costringere gli studenti bianchi del college a restare incatenati per terra in silenzio durante l’orario di lezione, per far percepire loro cosa voglia dire essere schiavi.

La tesi

L’esperimento è interessante in sé poiché svela su larga scala gli effetti deleteri di certi meccanismi di produzione industrializzata del sapere scientifico. Tuttavia, gli autori giungono a delle conclusioni che sono a nostro avviso contraddistinte da sostanziali aporie logiche, politiche ed etiche, che andremo a discutere di seguito. “Il problema – sostengono – è epistemologico, politico, ideologico ed etico e sta corrompendo profondamente il sapere delle scienze umane e sociali. Al centro del problema è ciò che è formalmente detto “costruttivismo critico”, i suoi più egregi studiosi son chiamati a volte “costruttivisti radicali”. Tuttavia, Boghossian, Lindsay e Pluckrose definiscono tale approccio in modo anodino e scarsamente delimitato. Intendono per costruttivismo critico tutta quella produzione di sapere teorico ed empirico che propone una critica esplicita alle forme di costruzione sociale della realtà, ovvero quella epistemologia delle scienze umane e sociali che mira a smantellare le categorie di senso comune che informano il sapere scientifico e a svelare il carattere artefatto dei significati condivisi nelle nostre società. Sotto tale ombrello, in effetti, potrebbero ricadere moltissime differenti correnti: la teoria discorsiva foucaultiana, la critica alla vita quotidiana di Lefebvre, la filosofia dell’homo sacer di Agamben, la queer theory di Judith Butler, i post-colonial studies, gli approcci costruzionisti allo studio della scienza e per esteso il costruzionismo sociale di Berger e Luckman e quello interazionista di Kellner e Kellner. Oltre a molti altri approcci e volgarizzazioni dei precedenti.

mercoledì 16 ottobre 2019

OMOGENITORIALITA': IDEOLOGIA, PRATICHE, INTERROGATIVI


Pubblichiamo a proposito del libro dello psicoanalista
SECONDO GIACOBBI
,
Omogenitorialità. ideologia, pratiche, interrogativi
(Mimesis 2019),
la recensione di RITA CORSA apparsa
sul sito SPIweb che ringraziamo.
 



Un paio d’anni fa, mi è capitato di subire un attacco frontale da parte di un esponente delle associazioni LGBT, perché sul bel dossier, Maternità surrogate, curato da Silvia Vessella per “SPIweb” (2016), avevo osato problematizzare la delicata questione della surrogacy. Sia ben chiaro, non avevo scoccato  alcuno strale contro tale pratica, ma avevo semplicemente rilevato che, in quest’età caratterizzata dall’affermazione totalitaria di τέχνη, le biotecnologie estreme consentono di non porre più dei limiti al desiderio, che diventa subito gesto, traducendo la fantasia in atto. Tale movimento provocherebbe, invero, un impoverimento del registro simbolico del pensiero, che si appiattirebbe sul reale. E aggiunsi che “l’utero della donna con la sua funzione riproduttiva è, forse, l’organo” che sta patendo la più profonda e brutale metamorfosi, anche sul piano simbolico. “Le strabilianti acquisizioni della genetica riproduttiva e della chirurgia ostetrico-ginecologica stanno rivoluzionando il concetto di maternità, di paternità e di genitorialità”. Apriti cielo!


Il libro di Giacobbi che vado qui a recensire propone delle riflessioni assolutamente non allineate sul tema dell’omogenitorialità, fatto che mi ha subito catturato, perché penso che le idee vadano scambiate in una dimensione dialettica, e non trattate come dogmi ideologici inscalfibili. Pure Paola Marion, nel suo recentissimo Il disagio del desiderio (2017), segnala che “negli ultimi decenni abbiamo assistito alla modificazione di un vincolo, quello tra sessualità e procreatività, che si era mantenuto nel corso di tutta la storia umana” (2017, p. 16). Le straordinarie conquiste delle biotecnologie hanno introdotto delle modificazioni radicali nel campo della procreazione e della genitorialità, con delle ricadute ancora non chiare sull’identità personale e sessuale, sulla sfera del desiderio e sull’idea stessa di piacere. 

Per Giacobbi, il tema dell’omogenitorialità attraversa una serie di

questioni nodali, tra cui quella, annosa, del rapporto tra natura e cultura, che per alcuni studiosi è un tema ormai obsoleto, in quanto superato dal meticciato uomo/macchina, che sta conducendo ineludibilmente alla graduale supremazia dell’ibrido transumano (Haraway, 1991). Giacobbi rimarca che la problematica tecnologica si intreccia intimante con l’etica, ma anche con la dimensione del desiderio, con i bisogni e i diritti, con le funzioni genitoriali e le sempre più incerte differenze tra i corpi (femminile e maschile). L’autore si chiede quali siano gli assetti mentali, le strutture inconsce della mente, e le modalità relazionali che caratterizzano da un lato la famiglia tradizionale e, dall’altro, le “nuove famiglie”. Egli sviluppa il suo discorso mantenendo fisso, a mo’ di stella polare, l’assunto che il bisogno da difendere è, innanzitutto, quello del bambino. Rimandando a un articolo di Silvia Vegetti Finzi  (uscito nel 2013 sulle pagine del Corriere della Sera), Giacobbi sostiene che non si può parlare di alcun diritto alla genitorialità, ma che semmai “il solo diritto è quello del bambino” (p. 8). 

Affrontando tali attualissimi argomenti, l’A. pone una serie di domande più direttamente inerenti la dimensione clinica, indicando delle ricerche che comproverebbero possibili danni nello sviluppo dei figli di genitori omosessuali, di contro ad altre che li escludono. Il materiale scientifico è esaminato con rigore ed equidistanza, e si distingue per il prevalere di una riflessione posata ed equilibrata, invece di scadere, come di frequente accade, in una sterile conflittualità ideologica. Ben sappiamo che le varie guerre di religione ancora in corso sulla composita faccenda dell’omogenitorialità insanguinano il pensiero scientifico e inibiscono una spassionata disamina specialistica. Mi viene in mente un folgorante lavoro di Bersani e Iannitelli – puntualmente citato da Giacobbi nel suo saggio – in cui i due studiosi invitano la comunità scientifica a non trattare ideologicamente il problema dell’omogenitorialità e avanzano degli interrogativi cruciali, che lasciano volutamente aperti. Tra i tanti, spicca uno che sembra far eco alle idee di Giacobbi: “È possibile misconoscere che il bambino è un ‘soggetto’ di questo diritto, prima, o invece, che un ‘oggetto’ del diritto di una coppia di allevare un figlio?” E concludono che, a fronte di una assai scarna letteratura “(...), il dato più eclatante appare quello di come l’assenza di riflessione critica, ampiamente diffusa nell’opinione pubblica, soprattutto sotto l’influenza dei media e della classe politica, sia largamente estesa in ambito psichiatrico, psicologico e neuropsichiatrico infantile, dove la competenza dei professionisti dovrebbe invece maggiormente stimolare interrogativi sulle conseguenze del fenomeno, almeno potenziali o comunque meritevoli di essere approfondite ed eventualmente escluse” (Bersani e Iannitelli, 2015, p. 2).

Il volume di Giacobbi ha certamente il merito di tentare di dipanare l’intricata faccenda da diverse prospettive, tenendosi ben lontano da posizioni che, ad esempio, vogliano riproporre una concezione patologica dell’omosessualità. Non mancano pagine di natura più propriamente giuridica, che servono a collocare la materia nell’ambito delle regole della convivenza sociale. Alcuni capitoli sono dedicati proprio a scongiurare qualsivoglia pregiudizio clinico, sociale e politico sull’omosessualità, concepita come una naturale manifestazione della sessualità individuale rivolta verso l’Altro, oggetto vivente. 

Giacobbi, tuttavia, ritiene che “lo studio delle sessualità legate al genere e all’orientamento sessuale debba continuare a rappresentare un ambito privilegiato, non solo della ricerca, ma anche e soprattutto della clinica”. Quindi, per lui “(...) si può ipotizzare che esiste una ‘sessualità femminile’ ed una ‘sessualità maschile’ e, allo stesso modo, una sessualità omosessuale femminile e una sessualità omosessuale maschile” (p. 18). Insomma, l’identità di genere è un principio che va ancora fermamente considerato. Le osservazioni di Giacobbi sono supportate da una ricca letteratura freudiana e post-freudiana e argomentate con chiarezza e linearità. Una sorta di strato roccioso, che però la nuova tecnologia medico-chirurgica sta progressivamente smantellando, rendendo la cornice metapsicologica sinora adottata sempre più insufficiente e inadeguata. Per Chasseguet-Smirgel, infatti, “la plasmabilità corporea” promossa dalla biotecnologia sta producendo una “rivolta contro l’ordine biologico”, che sconquassa anche “l’ordine del pensiero psicoanalitico”, in passato saldamente connesso all’epifania somatica (2003, pp. 12-16). 

Un esempio illuminante della drammatica aporia tra le
Picasso, Il Minotauro e le metamorfosi
teorizzazioni sull’identità di genere e le turbolente trasformazioni della sessualità nel nostro tempo è rappresentato dagli ultimi pronunciamenti giuridici relativi al cambiamento anagrafico di sesso. Finora il riconoscimento anagrafico della variazione del nome in rapporto al mutamento di genere doveva basarsi su riscontri clinici, che prevedevano una modificazione anche anatomica e morfologica degli organi genitali (D. Lgs 150/2011). Già nel 2015 la Corte di Cassazione (sentenza n. 15138 del 20 luglio) ha introdotto la possibilità di chiedere il cambiamento anagrafico di sesso pure in assenza di interventi chirurgici. In linea con tale pronunzia della Suprema Corte, nel marzo 2018 il Tribunale di Messina ha ribadito questo diritto del soggetto, motivandolo con la considerazione che: “il desiderio di realizzare la coincidenza tra soma e psiche è, anche in mancanza dell’intervento di demolizione chirurgica, il risultato di un’elaborazione sofferta e personale della propria identità di genere realizzata con il sostegno di trattamenti medici e psicologici corrispondenti ai diversi profili di personalità e di condizione individuale”. Giacobbi si domanda se sia realistico e saggio far consistere l’appartenenza di genere in un puro stato mentale dichiarativo e disconnesso dal dato corporeo, per quanto trasformato e ridisegnato da interventi ormonali e chirurgici.


Quale deve essere il passaggio che porta dal desiderio al diritto? L’A. non ha ovviamente una risposta assodata, ma il suo pamphlet qualche spunto ce lo offre. In certi passaggi egli si appoggia ad alcuni noti e ben consolidati concetti che, nel contesto in studio, sembrano però contenere una carica quasi eversiva. Egli dichiara che “la psicoanalisi ha creduto e crede ancora (...) che l’inconscio abbia in parte uno statuto filogenetico e quindi sia stabilizzato e radicato profondamente in noi, al di là degli aspetti coscienti del funzionamento, degli atteggiamenti e orientamenti della mente conscia, possibile invece di trasformazioni anche rapide”. Ciò induce a “rifiutare il riduzionismo antibiologico di cui una forma sottilmente edulcorata asserisce che è la cultura ad essere la ‘natura’ dell’uomo ed è grazie a tale ‘natura’ che l’uomo sopperisce a quella carenzialità e indefinitezza che lo caratterizzano” (p. 30). Eterno sogno di oltrepassarsi, di diventare altro da sé, sogno che, in forme diverse, da Icaro a Nietzsche, è abitato pur sempre dall’incubo della caducità dell’umano. 

Nei capitoli centrali, Giacobbi esamina le ricadute etiche del dominio della tecnica, di un Prometeo irresistibilmente scatenato, e rammenta al lettore la necessità di rinnovare quel principio di responsabilità di Jones (1979), che si basa non sul soddisfacimento immediato del desiderio – sulla “totemizzazione del desiderio”, valutato come bisogno incontestabile e come diritto da garantire sempre e comunque -, bensì “sulla valutazione delle conseguenze possibili, anche nel lungo periodo, delle azioni” (p. 35). 
Un principio di responsabilità che deve guidare anche le funzioni genitoriali, da lui “considerate intrinsecamente e sinergicamente differenziate, anche indipendentemente dal loro ancoraggio nel corpo” (p. 46). Seguendo i paradigmi di Fornari, Giacobbi torna a indagare i codici materni e quelli paterni, e poi si sofferma sulle fasi pre-edipiche della coppia madre/bambino. L’enigma della vita, sempre più spogliato di mistero, si intesse ambiguamente con i segreti delle origini, che entrano vieppiù in una logica di mercato: “ci troviamo di fronte a una compravendita che riguarda sia parti del corpo (sperma, ovulo, utero), sia l’espletamento di una funzione, che, nel caso dell’utero in affitto, prevede nove mesi di gestazione e il parto, dal quale nasce al mondo un bambino su cui la cosiddetta madre biologica rinuncia, per contratto, a rivendicare i diritti di maternità” (p. 77). La retorica del “dono” addolcirebbe l’esperienza, mentre quella dell’“amore” attenuerebbe la traumaticità per l’oggetto terzo, il bambino. 

Il linguaggio di Giacobbi è misurato e ben documentato; il tono pacato, ma fermo. Si tratta senz’altro di una voce fuori dal coro. Una voce autorevole che porta pensiero. Un pensiero coraggioso disposto al confronto. Con acume e garbo. 

Note bibliografiche

BERSANI G., IANNITELLI A. (2015). Omogenitorialità: esiste la necessità di una riflessione degli esperti della salute mentale? Riv. Psichiatr., 50 (1), 1-2. 
CHASSEGUET-SMIRGEL J., Il corpo come specchio del mondo, Raffaello Cortina, Milano, 2005]. 
CORSA R. (2016). “Corpi mutanti”. In: Vessella S. (a cura di), Maternità surrogate. Dossier SPIweb, https://www.spiweb.it/dossier/maternita-surrogate/corpi- mutanti/ (https://www.spiweb.it/libri/psychoanalysis-today/)
HARAWAY D. (1983-1991). “A Cyborg Manifesto: Science, Technology, and Socialist-Feminism in the Late Twentieth Century”. Simians, Cyborgs and Women: The Reinvention of Nature, Routledge, London/New York, 1991 [Manifesto Cyborg. Donne, tecnologie e biopolitiche del corpo, Feltrinelli, Milano, 1995]. 
JONES H. (1979). Il principio di responsabilità. Un’etica per la civiltà tecnologica. Einaudi, Torino. 
MARION P. (2017). Il disagio del desiderio. Sessualità e procreazione nel tempo delle biotecnologie. Roma, Donzelli. 
VEGETTI FINZI S. (2013). “Freud e il senso della divisione dei ruoli”. Corriere della Sera, 2 gennaio 2013. 


martedì 28 maggio 2019

IL CASO RICCI

Testo del Comunicato Stampa a firma del Collegio della Difesa (Avv. Davide Fortunato e Valeria Gerla) a proposito della Delibera di Archiviazione dell'Ordine degli Psicologi della Lombardia 






COMUNICATO STAMPA
Sul caso Ricci


Il 17 gennaio 2019 si è riunita la Camera di Consiglio dell’Ordine degli Psicologi della Lombardia per pronunciarsi sul procedimento disciplinare nei confronti del dott. Giancarlo Ricci e relativo ad alcune affermazioni pronunciate nel corso di una trasmissione televisiva del 2016. Solo dopo oltre tre anni di udienze il Consiglio, in ragione di 7 Consiglieri favorevoli e 7 contrari, ha deciso per l’archiviazione del procedimento.
Un esito che è frutto anche dell’intenso lavoro del collegio difensivo e che, per amore di verità, merita alcune considerazioni. Per oltre tre anni, dinanzi alla comunità scientifica, ai colleghi, al mondo istituzionale, il dott. Ricci è stato considerato come l’”incolpato”, termine usato nella Delibera iniziale. Tale situazione ha costretto il dott. Ricci a rimandare - e spesso annullare - varie attività pubbliche.

Riteniamo utile ripercorrere velocemente, qui di seguito, alcuni momenti significativi di questo lungo processo.


 


Oltre al contenuto delle dichiarazioni rese nell’ambito della trasmissione televisiva nel gennaio 2016, il Consiglio, in ragione delle difese svolte, ha potuto esaminare vari documenti, dépliant, scambi di mail, estratti di verbali di altri procedimenti, post di Facebook e altri estratti pubblicati in rete. Sono stati prodotti documenti che, a parere del Collegio difensivo, avrebbero dovuto condurre alla ricusazione di due Consiglieri. Per due volte, il Consiglio ha ritenuto che la documentata “profonda inimicizia” di due consiglieri nei confronti del dott. Ricci non giustificasse la richiesta di ricusazione. Le argomentazioni fornite in punto dal Consiglio appaiono deboli ed ellittiche di riferimenti alla ampia documentazione prodotta. Nel corso del procedimento si è dovuto, tra l’altro, prendere atto della volontà di un testimone di non rispondere ad alcune domande della Difesa.
Leggendo la Delibera di archiviazione rileviamo, nella descrizione delle motivazioni, alcuni punti che meritano alcune precisazioni.
Nella descrizione dello svolgimento del procedimento, in primo luogo, non si fa menzione del fatto che il dott. Ricci ha puntualmente ed esaurientemente replicato alle tre accuse principali, ovvero, nella estrapolazione delle affermazioni rese nel brevi interventi nel corso della trasmissione, ha fornito un chiarimento sul dott. Nicolosi, (“quello è stato detto su Nicolosi è del tutto arbitrario”), ha precisato una opinione scientificamente documentabile (“la funzione di padre e madre è essenziale e costitutiva del percorso di crescita”) ed ha offerto un commento personale con riguardo ad un tema di attualità (“nell’ideologia gender (…) l’omosessualità viene equiparata a una sessualità naturale, all’eterosessualità”). Sul primo aspetto è stata documentata, mediante comunicazione proveniente dal competente organo istituzionale statunitense, la bontà di quanto precisato dal dott. Ricci sul prof. Nicolosi: di tale importante elemento, non vi è traccia nel provvedimento.
Nel provvedimento, in contraddizione con l’iniziale impianto accusatorio, si legge: “oggetto del procedimento disciplinare a carico del dott. Ricci non sono eventuali sue posizioni riguardo a temi importanti, bensì il modo in cui egli ha ritenuto, in quanto psicologo, di poter trattare ed esporre tali temi all’utenza”. Ed ancora: “pertanto al dott. Ricci non è mai stato contestato cosa ha trattato, bensì come lo ha trattato; a prescindere dall’argomento, ciò che rileva e rileverà in sede disciplinare sarà come l’iscritto, in quanto psicologo, abbia restituito all’utenza tale argomento in termini di rigore scientifico, correttezza e puntualità”. Dunque da una parte si afferma che “non viene contestato ciò che Ricci afferma”, dall’altra che è “rilevante in sede disciplinare come Ricci ha restituito all’utenza tale argomento in termini di rigore scientifico, correttezza e puntualità”. La contraddizione pare, non solo al Collegio difensivo, evidente.


A fronte delle varie e numerose contestazioni mosse con l’avvio del Procedimento, risulta inspiegabile l’affermazione secondo cui “al dott. Ricci non è mai stato contestato cosa ha trattato, bensì come lo ha trattato”. Ciò nondimeno senza considerare che “ciò che Ricci ha trattato” è frutto di una estrapolazione di circa 3 frammentati ed interrotti minuti in cui l’incolpato è intervenuto su circa 45 minuti complessivi di trasmissione.
I tre minuti presi in esame sono stati, inoltre, nel corso della trasmissione oggetto di continue interruzioni, battute, commenti, sovrapposizioni di altre voci in un clima che rendeva impossibile un’efficace o puntuale replica rispetto agli argomenti posti.
Nel provvedimento di archiviazione si legge: “Pur permanendo irrinunciabili perplessità in ordine a orientamenti dottrinari e scenari metodologici a cui le affermazioni del dott. Ricci potrebbero voler fare riferimento e nell’impossibilità in sede disciplinare, di poter affermare, oltre ogni ragionevole dubbio, che tale diretto collegamento vi sia, ritiene questo Consiglio […] che non sono emersi elementi sufficienti per ritenere il dott. Ricci responsabile per gli illeciti contestati” e quindi “ha deciso di archiviare il procedimento disciplinare”.
Da un lato, dunque, il Consiglio chiarisce come non fosse oggetto di procedimento il “cosa”, ma solamente il “come”; dall’altro si legge che il Consiglio nutre “perplessità in ordine a orientamenti dottrinali” dell’incolpato.
Assolto, dunque, per insufficienza di prove?
Parrebbe così. Probabilmente le “irrinunciabili perplessità” dei sette Consiglieri che hanno votato contro l’archiviazione non sono state in grado di affermarsi, non hanno trovato sufficienti appigli per tradursi in una sanzione. Significativo che, nelle ultime righe si legga “il Consiglio ritiene di non poter sanzionare”. La scelta del predicato è, forse, rivelatrice: “poter” invece che il più appropriato “dover” sanzionare.
Rimane la perplessità in ordine al tempo occorso per stabilire che non si può sanzionare il Dott. Ricci per aver espresso un’opinione scientificamente documentata in alcuni frammenti di una trasmissione televisiva.
Così, pertanto, si è concluso il terzo esposto (analogamente a quanto già accaduto nel 2009 e nel 2011). Nel frattempo, nel 2017, 2018 e 2019, il Dott. Ricci ha ricevuto ulteriori tre esposti: una attenzione eccezionale, un vaglio costante del pensiero e dell’attività di un professionista che si limita a dar voce ad un filone non irrilevante del pensiero scientifico in ambito psicologico.
Non può nascondersi che per il Dott. Ricci, così come per qualsiasi altro iscritto all’Ordine, ricevere continui esposti e doverne rispondere ha il sapore di intimidazione.
L’utilizzo di questi procedimenti deontologici sembra, infatti, tradire le ragioni su cui si fondano gli Ordini professionali: più che garantire e tutelare la libertà di espressione, di ricerca e di civile confronto tra i suoi membri, parrebbe si preferisca  procedere a un controllo sulle opinioni ed ad una verifica di conformità del pensiero del professionista al mainstream.
Ricevere ripetutamente degli esposti, alcuni dei quali di scarso contenuto fattuale e giuridico e relativi a fatti risalenti nel tempo, costringe il professionista a spendere tempo ed energie per predisporre una difesa su accuse perlopiù inconsistenti; ad investire legali della tutela dei propri diritti di cittadino e di studioso; a valutare la necessità di sporgere querele per la diffamazione aggravata e la calunnia cui è di continuo sottoposto.
Non si può dimenticare che, qualora il procedimento in questione si fosse concluso con una sanzione disciplinare (l’unica in decenni onorata carriera), un grave danno sarebbe stato arrecato non solo al dott. Ricci, ma anche a tutti i pazienti che a quest’ultimo si affidano.
La durata del procedimento, oltre tre anni come detto, sembra, infatti, ledere anche i pazienti reali (tutt’altro che ipotetici), che in questo lungo periodo di tempo hanno temuto di vedere il loro psicanalista sospeso: essi sono stati forse dimenticati, in nome di una “tutela” per le ignote “vittime potenziali” di alcune frasi estrapolate da 200 frammentati secondi di una trasmissione televisiva.
Si giunge, dunque, al paradosso: nel tentativo di tutelare le fantomatiche vittime di frasi teoricamente discriminatorie, si trascurano gli interessi di un professionista, dei suoi pazienti e, nondimeno, la tutela del libero pensiero.
L’auspicio, a conclusione di questa vicenda, è che la comunità scientifica riscopra il gusto ed il valore del confronto civile e non ceda alla logica dell’aggressione personale per delegittimare l’opinione altrui.
Anche per affrontare queste tematiche, abbiamo voluto organizzare alcuni incontri che raccontino questa vicenda e cerchino di fornire un giudizio interpretativo di quanto accade nel nostro Paese: il primo incontro sarà mercoledì 29 maggio 2019 alle ore 21.00 presso l’Angelicum (in Milano, ingresso Via Renzo Bertoni 7 – Sala San Bernardino).


Milano, 21 maggio 2019
Il Collegio di Difesa (Avv. Davide Fortunato e Avv. Valeria Gerla)