In una società che non sopporta più la proposta di esempi di vita, trovano applicazione modelli sperimentali di convivenza sociale. Tanto che può anche capitare di ricevere, attraverso i mezzi di comunicazione, un’ispirazione da Stephanie Koontz, autrice di un’opera sul matrimonio, Marriage, a History: How Love Conquered Marriage, che ha conquistato anche le pagine del Corriere della Sera, dopo aver proposto, su The New York Times, i risultati di una ricerca sulle “buone pratiche” delle coppie omosessuali, da cui sembrerebbe emergere un clima di maggior serenità rispetto al vissuto delle famiglie naturali composte da un uomo e una donna.
Lo psicoanalista Giancarlo Ricci, nel volume Sessualità e Politica. Viaggio nell’arcipelago gender, offre invece altri criteri di valutazione sulla scelta preferenziale di un passaggio dal cosiddetto eterocentrismo all’omonormatività, cioè a una visione dell’omosessualità intesa come elemento portatore di pace nei costumi e nelle istituzioni. Andiamo più a fondo nella questione, ponendogli alcune domande.
Dottor Ricci, c’è un rischio di eterofobia nel vedere le relazioni fra uomo e donna come una fonte di violenza?
È più di un rischio. In queste ricerche intravedo nettamente un criterio che si basa su una serie di parametri indicatori di felicità e di benessere come se questi potessero essere quantificati e pertanto paragonati, valutati, misurati, e così via. Nella relazione tra un uomo e una donna c’è qualcosa che sfugge a qualsiasi parametro, se si tratta davvero di una relazione vera. In essa c’è sempre un elemento qualitativo singolare e unico. Altrimenti prevalgono criteri pragmatici o di semplice convivenza: la condivisione dei compiti domestici, il tempo che si trascorre insieme, la gestione condivisa dei bambini, dei propri spazi e via dicendo. Si tratta di un criterio improntato a una visione comportamentista e pragmatista dell’uomo che pretende di valutare se si verificano effetti gratificanti o di conflitto. In questa prospettiva ho l’impressione che venga affermata una certa idea di differenza sessuale e di statuto sessuale: come se la differenza tra i sessi, in quanto tale, fosse la causa che maggiormente produce conflitto, violenza o incomprensione. E che pertanto ostacola la felicità, la comprensione, la compattezza della coppia. Non è così. Se alla sessualità togliete la differenza tra i sessi, l’eteros, l’alterità, rimane ben poco, rimane l’autoerotismo, un piacere fine a se stesso, senza soddisfazione, antitetico a un’eventuale felicità. Non a caso la parola «felicità» proviene da «fecondità». L’incontro con l’altro sesso, con l’alterità, produce conoscenza di sé, avvia un processo interiore costellato da valori irrinunciabili su cui cresce l’umano.
Così si giunge a giustificare l’omogenitorialità: se la percezione è che i bambini siano meno trascurati all’interno di una convivenza fra persone dello stesso sesso, la conseguenza è che dovrebbero essere allontanati dai genitori per preservarli dall’insoddisfazione…
Sì, sono giustificazioni piene di paradossi. L’omogenitorialità è una scelta, come pure lo è la decisione di “avere” o di adottare bambini. Se ci si fa caso, le varie ricerche favorevoli all’omogenitorialità parlano sempre del benessere dei bambini. Il criterio prevalente è sempre e soltanto il benessere (spesso inteso come sinonimo di salute). E poi parlano solo di bambini, molto raramente di figli: prendono in esame soltanto l’età infantile, non tutto il ciclo di sviluppo che arriva fino all’adolescenza. Guarda caso, le ricerche non proseguono le considerazioni quando si entra nella fase più delicata relativa alla formazione dell’identità sessuale del ragazzo o della ragazza. È come se fosse un segmento di ricerca mancante o, meglio, volutamente trascurato. Direi, velocemente, che queste ricerche, insistono sul bambino proprio perché disconoscono lo statuto di figlio: il bambino è soprattutto un oggetto di desiderio condiviso tra due, il figlio introduce una posizione terza, altra, rivolta all’esterno. Presuppone un mito delle origini, una genealogia, un’inscrizione genealogica, una trasmissione del nome. Sono questi processi, con le proprie logiche, a garantire che ci sia un’alternanza delle generazioni.
Forse può venire incontro qualche testimonianza sul tema, anche letteraria, come il volume autobiografico di Dawn Stefanowicz, Fuori dal buio. La mia vita con un padre gay o la vicenda di Robert Lopez, che descrivono il disagio da loro vissuto e non certo a causa dell’omofobia. Ma, a proposito di questo, che tipo di organizzazione politica può nascere da legami affettivi fondati sull’omocentrismo, dove la differenza fra uomo e donna è considerata generatrice di problemi?
Non è soltanto la famiglia formata da un uomo e da una donna a essere messa in discussione. È qualcosa di più: tra l’altro anche lo statuto di figlio, per esempio, il quale è strutturalmente portatore di differenza (di idee, di pensiero, di progetti). Ho l’impressione che l’omogenitorialità rischi di diventare il modello di una sorta di famiglia fai-da-te, dove l’alterità e la differenza sono messi al bando. Più in generale, quasi rappresentasse un modello alternativo o trendy, credo che l’omogenitorialità possa diventare (e in parte lo è già) un modello idealistico nel quale i soggetti sono sempre più svincolati da legami sociali in nome di un individualismo estremo, soggettivistico. In nome del diritto alla libertà si attua una deresponsabilizzazione della libertà. Siamo nel mondo ipertecnologico del “mi piace”, dove tutto è permesso. Anzi, dove si afferma l’obbligo del “tutto è permesso”. Anche dal punto di vista della spesa sociale, della previdenza, il Welfare State sembra orientarsi verso una prospettiva egualitaristica che all’apparenza è considerata vantaggiosa, ma che alla lunga temo si rivelerà devastante, dal punto di vista sia del soggetto sia sociale. L’applicazione sistematica e impositiva di scelte o politiche “sanitarie”, sociali ed educative ispirate ai criteri gender viene considerata, ormai per molti, una modalità omologante e uniformante: il soggetto, i genitori stessi, vengono spossessati di un diritto proprio e di una soggettività propria in nome di un modernismo ipotetico che pretende, non senza tornaconti, di monopolizzare l’umano.
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