Malattia o non malattia? Il dilemma infuria.
Tratti dal libro IL PADRE DOV'ERA di Giancarlo Ricci, pubblichiamo alcuni brani che vogliono aprire un
dibattito spesso considerato troppo scomodo.
Tratti dal libro IL PADRE DOV'ERA di Giancarlo Ricci, pubblichiamo alcuni brani che vogliono aprire un
dibattito spesso considerato troppo scomodo.
Accennare all’omosessualità come sintomo suscita l’immediata riprovazione perché subito l’interlocutore si precipita a concludere: allora l’omosessualità viene considerata una malattia! Come volevasi dimostrare. Se viene considerata malattia ecco subito partire l’accusa di omofobia. Nulla di più demagogico in questa specie di sillogismo, perché il concetto di sintomo - non smetteremo di ripeterlo - non corrisponde a quello di malattia.
Malattia o non malattia? I distinguo imperversano, a volte perversamente, proprio per creare quella confusione in cui tutto è vero e tutto è falso al tempo stesso. Sono frasi che sentiamo quotidianamente: l’omosessualità non è una malattia; forse è un disturbo; no, un disordine; si tratta solo di un orientamento; non si può curare perché si nasce omosessuali; chi vorrebbe curarla commette un abuso; poi perché bisogna curarli?; forse è curabile solo quella egodistonica; quella egosintonica perché curarla?; perché costringere qualcuno a diventare eterosessuale? Ciascuna di queste frasi contiene in sé un teorema, contiene cioè già i termini che prevedono, per la logica che sottendono, una particolare risposta e non altre.
Sono soprattutto i militanti gay e le posizioni radical-moderniste dei movimenti LGBT ad affermare che l’omosessualità non è una malattia. E hanno ragione. Hanno ragione se intendessero la parola malattia in senso medicale, nel senso cioè di un’oggettivazione stigmatizzante oggettivabile e catalogabile dalla scienza medica. Hanno torto se brandendo la bandiera dei diritti e delle libertà cercassero di far sparire o minimizzare il disagio, talvolta profondo, che accompagna il variegato mondo dei gay. Probabilmente hanno ragione, perché un disagio è talmente soggettivo che, in linea di massima, non può essere oggettivato o costretto entro facili definizioni o entro parametri generici.
Non si tratta, nella prospettiva che tentiamo qui di proporre, di una contrapposizione tra chi ritiene l’omosessualità una malattia e chi no. Insistiamo nel sottolineare che il termine malattia è inadeguato, generico, allude a un contesto che risulta fuorviante. Soprattutto nell’ambito giovanile dobbiamo riconoscere che vi sono atteggiamenti o comportamenti che non possono essere oggettivati in quanto omosessualità. Occorre poi distinguere tra un’omosessualità come orientamento e un’omosessualità come vicenda relativa all’identità di genere. In definitiva esistono varie forme di omosessualità ben diverse tra loro.
Ciò che gli umani chiamano malattia meriterebbe altri nomi tra cui, per esempio, desiderio, destino, godimento. E tanti altri ancora tra cui: scelta, inclinazione e anche follia. Ma si tratta di una combinatoria tra più elementi e più tendenze. Il nucleo della soggettività umana non è mai completamente trasparente. La soggettività dell’Amleto di Shakespeare o dell’Edipo di Sofocle sono due emblemi intramontabili di quella indecidibile “malattia” chiamata soggettività. Inguaribile appunto perché ogni soggettività si trova sul crinale in cui libertà e destino, scelta e necessità, desiderio e godimento si incontrano.
Proprio su questo stesso crinale sorge la clinica psicanalitica che non necessita di alcun furore di sanare, di classificare o di patologizzare.
Giancarlo Ricci, Il padre dov'era. Le omosessualità nella psicanalisi., Sugarco.
Giancarlo Ricci, Il padre dov'era. Le omosessualità nella psicanalisi., Sugarco.
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