Pubblichiamo alcuni passi dell'articolo IL SESSO DEI GIACOBINI di Roberto de Mattei, uscito su IL FOGLIO il 3 luglio 2013.
Il testo completo è leggibile presso:
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La Rivoluzione culturale del Sessantotto aveva proclamato la fine della famiglia, definendo il matrimonio un “peccato sociale”, per il suo esclusivi- smo. Oggi le comunità Lgtb (Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender) lo rivendicano non come punto di arrivo, ma come tappa di un itinerario che ha ben altra mèta.
La richiesta di legalizzazione del cosiddetto “matrimonio gay” è in realtà una rivendicazione sociopolitica che mira esclusivamente a togliere alla famiglia la protezione sociale che essa ha fino a oggi avuto in occidente in ragione della sua insostituibile funzione sociale. Sotto questo aspetto, il cardine dell’ideologia omosessualista non sta in ciò che afferma, ma in ciò che nega, non in ciò che dice di volere, ma in ciò che realmente aborre: in una parola non nella rivendicazione del matrimonio e dell’adozione di bambini, ma nella volontà di espropriare la famiglia dai diritti e dai privilegi che in molti paesi, come l’Italia, ancora vengono accordati a questa istituzione dalle leggi e dalla Costituzione. La rivendicazione del “matrimonio omosessuale” è proprio per questo inscindibile dall’introduzione del reato di omofobia. (...) L’“orgoglio omosessuale” si propone di capovolgere questa prospettiva e trattare come “anormali”, “devianti”, “indegni”, gli omofobi, ovvero tutti coloro che criticano l’omosessualismo per affermare il primato della famiglia naturale.
Ma i diritti fondamentali, a cominciare dalla libertà di espressione, oggi sono garantiti a tutti dalla legge, compresi gli omosessuali. Se la legge sull’omofobia, su cui esiste “larga intesa” nel nostro Parlamento, andasse in porto, il diritto della libertà di espressione sarebbe negato solo ai difensori dell’ordine tradizionale. Un sacerdote dal pulpito o un professore dalla cattedra non potrebbero presentare la famiglia naturale e cristiana come “superiore” alle unioni omosessuali, senza che questo costituisse una “discriminazione” degna di sanzione penale.
La richiesta di legalizzazione del cosiddetto “matrimonio gay” è in realtà una rivendicazione sociopolitica che mira esclusivamente a togliere alla famiglia la protezione sociale che essa ha fino a oggi avuto in occidente in ragione della sua insostituibile funzione sociale. Sotto questo aspetto, il cardine dell’ideologia omosessualista non sta in ciò che afferma, ma in ciò che nega, non in ciò che dice di volere, ma in ciò che realmente aborre: in una parola non nella rivendicazione del matrimonio e dell’adozione di bambini, ma nella volontà di espropriare la famiglia dai diritti e dai privilegi che in molti paesi, come l’Italia, ancora vengono accordati a questa istituzione dalle leggi e dalla Costituzione. La rivendicazione del “matrimonio omosessuale” è proprio per questo inscindibile dall’introduzione del reato di omofobia. (...) L’“orgoglio omosessuale” si propone di capovolgere questa prospettiva e trattare come “anormali”, “devianti”, “indegni”, gli omofobi, ovvero tutti coloro che criticano l’omosessualismo per affermare il primato della famiglia naturale.
Ma i diritti fondamentali, a cominciare dalla libertà di espressione, oggi sono garantiti a tutti dalla legge, compresi gli omosessuali. Se la legge sull’omofobia, su cui esiste “larga intesa” nel nostro Parlamento, andasse in porto, il diritto della libertà di espressione sarebbe negato solo ai difensori dell’ordine tradizionale. Un sacerdote dal pulpito o un professore dalla cattedra non potrebbero presentare la famiglia naturale e cristiana come “superiore” alle unioni omosessuali, senza che questo costituisse una “discriminazione” degna di sanzione penale.
E’ per questo che la libertà di espressione si restringe sempre di più per i cristiani in Europa. L’obiezione di coscienza – che riguarda i medici sull’aborto, così come i sindaci o i dirigenti del comune sulle unioni civili o “matrimoni” gay – tende a essere sempre più ristretta, mentre in molti paesi i cristiani non possono esprimere opinioni contrarie all’omosessualità, nean- che rifacendosi alla Bibbia, senza che queste vengano tacciate e sanzionate come “discorso d’odio”.
Anche paesi di antica tradizione cattolica hanno iniziato a inserire nelle loro legislazioni il nuovo crimine degli hate speech, che si riferiscono alla discriminazione e all’ostilità verso un individuo, a causa di caratteristiche particolari, come il suo orientamento sessuale o “l’identità di genere”. In dodici stati membri dell’Unione europea (Belgio, Danimarca, Germania, Estonia, Spagna, Francia, Irlanda, Lettonia, Paesi Bassi, Portogallo, Romania e Svezia) più l’Irlanda del nord nel Regno Unito, è considerato reato esprimere critiche in base all’orientamento sessuale. Negli altri stati membri, le critiche nei confronti di persone lesbiche, gay, bisessuali e transessuali non sono definite specificatamente come reato. Le lobby relativiste vorrebbero una legislazione europea uniforme, che reprima ogni forma di discri- minazione, anche solo verbale. Il 24 maggio 2012, il Parlamento europeo ha votato una risoluzione contro l’omofobia e la transfobia in Europa che “condanna con forza tutte le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere” ed esorta gli stati membri a garantire la protezione di lesbiche, gay e transgender dai discorsi omofobi di incitamento all’odio e dalla violenza. Con ciò si intende impedire, in realtà, ogni forma esplicita di critica della condizione omo o transessuale. Si inizia così ad applicare rigorosamente la categoria giuridica di “non discriminazione”, introdotta dall’art. 21 del trattato di Nizza, recepito dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Il principio è solo apparentemente nuovo: in realtà non si tratta altro che del vecchio concetto giacobino di uguaglianza assoluta, riproposto con nuovo linguaggio. E’ difficile infatti trovare un termine ambiguo come quello di discriminazione. L’idea stessa di giustizia, che nella sua formulazione tradizionale significa attribuire a ciascuno quello che gli è proprio (suum cuique tribuere) implica qualche forma di “discriminazione”. Ogni legge è costretta in qualche modo a “discriminare”, per il fatto stesso che stabilisce che cosa è giusto e ingiusto, lecito o proibito, favorendo gli uni e ostacolando gli altri. La pretesa di non discriminare gli orientamenti sessuali significa applicare un criterio rigorosamente ugualitario a tutte le scelte, quali esse siano, relative alla sessualità umana. Un coerente criterio ugualitario porterà a proteggere giuridicamente ogni forma di disordine morale, dalle unioni omosessuali alla poligamia, dalla pedofilia all’incesto, almeno quando siano tra soggetti consenzienti ed escludano una violenza esplicita. Tutti gli oppositori di questi orientamenti sessuali sono destinati a essere perseguiti dalla legge.
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