giovedì 9 giugno 2016

ARCIPELAGO GENDER. Giovanni Sias sul libro di Ricci

Giovanni Sias interviene sul libro Sessualità e politica 
di Giancarlo Ricci con alcune riflessioni 


La lettura dell’ultimo lavoro di Giancarlo Ricci, Sessualità e politica (Sugarco 2016) impegna in alcune riflessioni che riguardano da vicino la nostra vita nella contingenza storica, E’ anche, e forse soprattutto, occasione per trovare una via non ideologica, per tentare di cogliere che cosa passa oggi a livello mediatico e nei luoghi comuni che attraversano le società del nostro tempo. Forse è questa l’indicazione contenuta nel sottotitolo del libro: Viaggio nell’arcipelago gender. E che il «gender», espressione di una libertà falsa e distorta, sia di ordine squisitamente ideologico mi sembra fuori di dubbio. Che una persona ritenga di poter scegliere il «genere» a cui appartenere benché nasca maschio o femmina, e si ritenga in potere di sovvertire tale statuto biologico ancor prima che antropologico, non può che essere frutto di un’idea di onnipotenza sostenuta dalla potenza della tecnica.

Che si tratti di ideologia lo sottolinea anche il fatto, non irrilevante, che in questo dibattito sociale non sembra che ci sia spazio per discutere, sia sul piano etico sia su quello scientifico: il pensiero gender, sostenuto dai programmi accademici di psicologi e sociologi (e cioè di quelle teorie che il nostro Ugo Spirito chiamava «false scienze») che ne hanno costruito l’ideologia, si presenta come indiscutibile e corre per la sua strada egemonica senza trovare ostacoli, sostenuto dalla politica e dalla falsa-scienza dei nostri tempi.
Che l’autore abbia voluto, con questo libro, portare il confronto sul piano del linguaggio, evitando ogni trabocchetto ideologico, è il suo merito, ed è il suo tentativo di riportare un dibattito sul piano della scienza. Infatti, se vogliamo leggerlo dobbiamo partire dalla frase tratta da Freud e messa in esergo: «La psicanalisi non ha il compito di rendere impossibili le relazioni problematiche, ma di creare per l’Io del paziente la libertà di optare per una soluzione». Qui si trova, o almeno così a me pare, l’indirizzo per leggere in modo corretto il libro di Ricci.
La struttura del libro poi rimanda a questioni e a tematiche che si sviluppano eminentemente sul piano linguistico. Organizzato come un dizionario prende in considerazione tutti i termini (dalla A di abuso alla V di vittimismo) che caratterizzano il linguaggio intorno a tali questioni, e se seguiamo il percorso che analizza il senso che le parole acquisiscono nell’«arcipelago gender», e più in specifico nel linguaggio corrente, ci accorgiamo come tutto questo discorso su una presunta facoltà umana, che non vuole tener presente la sessualità come elemento determinato dal caso (naturale, biologico, e anche antropologico per quanto riguarda una cultura dell’umano), ma lo considera solo un elemento sociale, in cui la sessualità è pensata come scelta «libera» di un ipostatizzato e illusorio soggetto a cui la filosofia da lunghi anni (quattro secoli!) ci ha assuefatti, ci troviamo a considerare come il trionfo del narcisismo scivoli sempre più nella perversione, e che le società attuali, sul piano finanziario, tecnologico, economico e politico, attuano la perversione come espressa possibilità di dominio, di controllo e di assuefazione delle coscienze.

Qui non si tratta più di porre la questione intorno alla libertà di essere o di riconoscersi omosessuale, per esempio, ma ben peggio, di confinare l’omosessualità in una specie di enclave antroposociogiuridica per specie protette, e di dare a essa uno statuto sociale che nulla ha a che fare con quanto viene sbandierato come libertà sessuale o umana. In realtà, se grattiamo anche solo un poco l’apparenza, ci accorgiamo che non di libertà si tratta, perché un tale meccanismo di controllo, attuato sul piano tecnico e politico, comporta esattamente il suo contrario dal momento che procede dalla negazione di uno statuto simbolico dell’umano e amputa per ciascuno la possibilità di riconoscersi per ciò che è sul piano della sua nascita: nato maschio, nata femmina, destinato dal caso a essere uomo o donna. Tolto il caso che mi ha generato che cosa mi resta di una mia autentica libertà? Tolto il caso che ci ha fatto maschi o femmine non ci resta forse solo la sottomissione alla tecnica, la cui realizzazione di potenza può prevedere solo che l’uomo diventi niente più altro che «un mezzo» per accrescerla?
Ricci se ne avvede, coglie i rischi insiti nell’ideologia, e lo scrive in conclusione della sua «Introduzione»: «L’ideologia gender risulta così la punta più avanzata, ipermoderna e neoliberale di gestione e controllo della soggettività. In nome di una tecno-biologizzazione essa propone una negazione dello psichico per celebrare il trionfo narcisistico dell’Io a discapito del bene comune». E qui, «bene comune», dovrebbe essere inteso come la sessualità che concerne ciascuno e non come una ipotetica «libera scelta»; come quel processo di individuazione che ci fa uomini e donne, indipendentemente dalla «scelta» sessuale (omosessuale o eterossessuale) in cui siamo implicati nostro malgrado.
Eppure, di fronte a tali temi e alla loro implicazione etica, c’è chi afferma che il libro di Ricci non è sostenuto e corroborato da dati scientifici. Ci troviamo di fronte a un pensiero (ma una tale parola è davvero troppo se applicata a quelle «menti») debole, anzi deboluccio per non dire sconclusionato. C’è davvero da chiedersi che scienza sarebbe quella che sostiene un processo ideologico e un progetto di «amputazione antropologica». Certo non è scienza, né è possibile considerarla tale, dato che produce risposte, vende certezze, parla con lingua da imbonitore, mentre la scienza, quella vera, procede solo per domande. Non offre certezza ma indaga, pone problemi, e le sue soluzioni sono sempre e solo provvisorie. Quelle che psicologi e sociologi chiamano “scienza” non è che un’accozzaglia di frasi, chiacchiere in libertà, dove ciascuno vende la sua boccetta miracolosa. Sarebbe questa la scienza, che manca e che non corrobora le analisi di Ricci? (Detto così, mi viene da pensare, è un onore per lo stesso autore aver rifuggito una tale scienza.)
Ricci non ci casca, con il rigore del ricercatore mette in campo problemi, li enuncia, li offre alla ricerca di soluzioni, temporanee ma rigorose nella loro enunciazione. Non si tratta di essere per qualcosa o contro qualcosa, si tratta invece di offrire materiale di riflessione, di analisi, di indagine. Tutto quanto prodotto dall’ideologia gender, io credo, non riguarda una serie di temi degni di studio, quali la considerazione che la famiglia è “storica” e non naturale, che l’omosessualità non è malattia, che gli omosessuali hanno diritto a tutte le garanzia delle coppie eterosessuali, e così via. Temi e diritti addirittura ovvi, che appartengono a situazioni storiche e condizione umana. 
Ciò che non convince, in queste nuove ideologie sociali, perché implica qualcosa di perverso, è invece la pretesa, trasformata in “diritto”, di avere figli. Questo, naturalmente, non riguarda solo gli omosessuali. Questo nasce ideologicamente dalla presunzione di avere un corpo e di esserne proprietari, e tecnicamente dalle forme “artificiali” di inseminazione, dove la donna (estremo paradosso) si piega bovinamente nelle “ginecologiche” e fameliche mani tecno-mediche facendosi manipolare in ogni modo: bovinamente e cioè proprio nello stesso modo, con quella stessa tecnica del cerchiaggio usata per i bovini. Questa sarebbe la libertà che si pretende essere la propria? Offrire quel corpo di cui si delira essere i padroni alla indiscriminata manipolizione ginecologica? Consegnarlo “tecnicamente” alla sofferenza? Dalla pretesa del figlio alla “scelta” del sesso il passo è breve, basta consegnare il proprio corpo alla manipolazione tecnica: la logica non cambia.
Anche queste modalità ideologiche, propongo a Ricci, andrebbero inserite nell’arcipelago gender.
No, tutto questo non ha niente a che fare con la libertà, ma con le nuove frontiere dell’isteria. Più si “ha” un corpo e meno lo si “è”, più si pretende di imporre la propria volontà al corpo e più si rinuncia alla libertà. Siamo tutti nati da “caso” e non dalla “volontà” che opera il dominio sui corpi.
Molta gente mi ha chiesto in questi mesi che cosa ne penso dei figli delle famiglie omosessuali. Ebbene, non penso niente, non so proprio che cosa pensare perché non ho nessuna esperienza circa tali adozioni o procreazioni su commissione: non ho mai avuto in analisi un “figlio” di una “famiglia” omosessuale. Ho avuto in analisi figli adottati da famiglie tradizionali, e la loro vita non era affatto facile e felice. Come la vita di ciascun figlio, d’altronde, anche se è figlio di una famiglia “tradizionale”. Come saranno i cosiddetti figli arcobaleno? Quando si avvicineranno all’analisi valuteremo, cercheremo di capire, offriremo elementi seri di analisi. Per ora parlarne è solo fare chiacchiera (l’attività preferita dagli psicologi e, purtroppo!, anche da molti psicanalisti).

Ma intanto, valutare che cosa è nel linguaggio, sia sul piano filosofico che sul piano antropologico e analitico, tutto l’universo linguistico attraverso cui si esprime oggi l’universo gender, diventa necessario per orientarsi nella propria posizione di analista. Questa è scienza, di contro alla chiacchiera ideologica che “obbliga”, “costringe” a essere per o contro, ad aderire in modo indiscriminato al discorso comune e globale (vecchio ricordo del fascismo, ma sempre più attuale e presente e invasivo nelle società contemporanee), a essere “corretti” e “politicamente” orientati.

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