Pubblichiamo questo testo di Fausto Sesso sul saggio
La fine della madre di Lucetta Scaraffia (Neri Pozza),
tratte dal blog (3.12.17) www.fuoridallemura.it
«Il padre è costruzione, il padre è artificio: diversamente dalla madre, che continua in campo umano una condizione consolidata e onnipresente ai livelli che contano della vita animale. Anche la madre che oggi conosciamo è, ovviamente, un prodotto della civiltà, ma a partire da un piedistallo biologico. Il padre è programma – forse il primo programma –, è intenzionalità, è volontà (potrebbe corrispondere all’invenzione della volontà?) ed è, quindi, autoimposizione. [...] Rispetto alla madre il padre è molto più insicuro della propria condizione. In pratica, non l’evoluzione animale ma solo la storia (nel senso più vasto, che include la preistoria) e l’esistenza psichica hanno dato al maschio la qualità di padre: ed egli la stringe con più rigidità, diffidenza, aggressività e con meno spontaneità di come la madre stringe la condizione sua. Perché se solo la storia gliel’ha data, la storia se la può riprendere». Sono passati diciassette anni da Il gesto di Ettore. Preistoria, storia, attualità e scomparsa del padre, fondamentale saggio di Luigi Zoja. E il «piedistallo biologico» che avrebbe dovuto proteggere la Madre dalle mutazioni della Storia pare vacillare. Se il padre è morto, insomma, neppure la madre si sente molto bene.
A ricordarcelo, fin dal titolo, è il saggio La fine della madre di Lucetta Scaraffia. «Anche le madri – che ricorrono al concepimento in vitro, all’acquisto degli ovuli se non addirittura all’affitto dell’utero – diventano sempre più simili al modello paterno, che prevede un riconoscimento volontario e istituzionale e un ridotto contributo biologico. Mentre la scena della procreazione si fa sempre più affollata perché comprende, oltre ai due genitori, gli eventuali donatori o la donna che affitta l’utero, i medici che compiono le operazioni necessarie e perfino le istituzioni che mediano i rapporti fra i cosiddetti “donatori” con gli aspiranti genitori». Tutto ciò viene comunemente interpretato «come passi in avanti sul piano della libertà individuale e come applicazione pratica delle nuove scoperte delle tecnoscienze. Quasi che sia la libertà individuale, sia il progresso nelle tecnoscienze, fossero processi autonomi, non controllati dagli esseri umani, ma avanzassero spinti dagli eventi, portando quindi l’umanità a esiti fatali e incontrastabili». Siamo, in realtà, di fronte a delle «trasformazioni antropologiche di vasta portata che stanno cambiando radicalmente il nostro modo di essere e le nostre società perché toccano punti nevralgici e profondi della condizione umana, a cominciare dalla generazione».
E a preoccupare è la prospettiva futura più che la contingenza del presente. «La pratica dell’utero in affitto può essere considerata infatti una prova generale di un progetto di gran lunga peggiore: quello di trasferire la gravidanza in un utero artificiale. [...] All’inizio, per farlo accettare – scrive Atlan – si dirà che serve a evitare aborti, salvare feti abortiti o perfino funzionare da rimedio alla sterilità, poi, ovviamente, potrà essere usato in mille altri modi. Tutti finalizzati a eliminare il rapporto fra una donna e il figlio, tutti tesi a distruggere la relazione materna». In realtà, si comincia già a fare a meno perfino dell’ipocrisia e gli scopi vengono dichiarati esplicitamente. Come dalla genetista Aarathi Prasad nel saggio Storia naturale del concepimento. «Quando l’utero artificiale diventerà disponibile, una distribuzione equa del travaglio (nel senso di parto) sarà finalmente alla nostra portata. [...] Quella madre potrebbe addirittura rinunciare alla gravidanza, lasciando al medico il compito di stabilire le condizioni ideali per lo sviluppo del feto. Lei potrebbe persino continuare a lavorare, come fanno gli uomini, fino al giorno della nascita. Sarebbe il grande livellatore biologico e sociale, un modo realmente nuovo di pensare al sesso». Fino all’estrema frontiera: l’anarchia riproduttiva. «Il genitore single definitivo probabilmente sarà una donna a cui serviranno solo le proprie cellule staminali e un cromosoma Y artificiale per riuscire a produrre ovuli e spermatozoi. Potrebbe fare un figlio usando due ovuli tutti suoi, convertendone uno in pseudo-spermatozoo così da autofecondarsi, come già gli scienziati hanno fatto con i topi».
«La rivoluzione femminista iniziata nell’Ottocento, al di là di una veste semplicemente emancipazionista, conteneva in germe una grande possibilità: quella di portare i valori femminili nello spazio pubblico, di farli riconoscere validi per tutti per la loro importanza straordinaria e innovativa. [...] Una diversa gerarchia di priorità, che avrebbero potuto seriamente mettere in crisi la società concepita al maschile». È stata «forse l’utopia più alta e più radicale fra quelle germinate – e fallite – nel Novecento». E una della cause del suo fallimento è non aver compreso che, suggerisce Alain Badiou, le donne avrebbero dovuto diffidare, molto più che degli uomini, di ciò che, in fatto di liberazione, veniva loro proposto dal capitale. Così il «traguardo» che oggi il capitalismo propone alle donne è ben poca cosa, come scrive la Scaraffia: «arrivare a ottenere il medesimo potere e il medesimo reddito degli uomini, la loro medesima libertà dal “pericolo” di procreare. Anche a costo di rinunciare alla maternità: alla realtà e al simbolo della maternità». Tutto ciò è promosso, in particolare, dalle vestali del capitalismo, le donne di cultura che – anziché fornire strumenti di consapevolezza – su questo tema si costruiscono, o alimentano, una carriera giornalistica, letteraria, artistica, politica e perfino istituzionale. E su ciò, con la complicità della grande informazione, impera un feroce conformismo che non lascia spazi pubblici di contestazione. Di conseguenza, non c’è tema su cui l’inconsapevolezza, ad ogni livello, sia così assoluta. «Infatti, se si alzano ancora delle proteste da parte di ciò che resta dei movimenti femministi, è per lamentare che le donne non sono ancora abbasta numerose nei ruoli apicali, che spesso il loro salario rimane inferiore».
Siamo alla fine della madre, dunque? Di sicuro ad essere minacciata, scrive la poetessa e femminista Adrienne Rich, è «l’unica esperienza unificatrice, incontrovertibile, condivisa da tutti, uomini e donne: il periodo trascorso a formarci nel grembo di una donna. Per tutta la vita e persino nella morte conserviamo l’impronta di quella esperienza».