giovedì 11 febbraio 2016

L'OMOGENITORIALITA' E IL BAMBINO. Di G. Ricci

Contributo intorno alle implicazioni simboliche dell'omogenitorialità al tempo della sconfessione del padre e dello decostruzione della madre. 


Sull’omogenitorialità molti prendono la parola come se si trattasse di una preferenza o un’opzione personale, come se le faccende umane fossero governate da principii e statuti simbolici modificabili a piacimento. Nella società in cui tutto è permesso, nell’enfasi dello scientismo e nelle promesse delle biotecnologie bisognerebbe ricordare che esistono principii che vengono chiamati non disponibili. Sono proprio questi principii a definire simbolicamente l’umano, il suo statuto, il suo orizzonte di verità.
Quale sarebbe lo statuto simbolico dell’omogenitorialità riconosciuto attraverso una legge? A che cosa sarebbe preposto? Dobbiamo prima precisare cosa intendiamo per “bambino” e che cosa con “figlio”. Sono davvero due sinonimi o hanno due statuti differenti? Partendo dalla teoria e dalla pratica clinica (psicanalitica) occorre rilevare che c’è differenza tra il concetto di “bambino” e di “figlio”. Il “bambino” è da considerare principalmente come oggetto d’amore, un oggetto pensato, progettato, desiderato. Se una donna dicesse che vuole avere un bambino, magari a tutti i costi, sarebbe problematico. Per i genitori - etero o omo - il rischio è che, appunto, prevalga il desiderio di avere un bambino, di considerarlo un oggetto narcisistico che deve confermare la specularità della coppia, prolungarla, fare tutt’Uno con essa. Il “bambino” incarnerebbe il desiderio della madre, sarebbe cresciuto come l’oggetto immaginario che ricolma la sua mancanza. 
  
Autun, Francia, ca. 1130. (Allegoria della filiazione?)
Altra cosa è il “figlio”: egli simbolicamente  è situato in un processo di filiazione e non puramente in una linea riproduttiva  biologica, magari favorita dalle nuove biotecnologiche. Il figlio è colui che appartiene a una genealogia, è colui al quale è affidato il compito di trasmettere (a suo modo) il debito di vita che riceve, è colui che garantisce alla società e alla civiltà l’alternarsi delle generazioni ossia la trasmissione di una memoria dell’umano. Il figlio è il cuore pulsante della vita, il punto sorgivo da cui passa la vita e la morte, il progetto di vita e il suo compimento. E’ molto di più che un oggetto d’amore: egli istituisce l’essenza dell’umano, la finitezza del limite e l’infinitezza dell’avventura. Il figlio cammina con i propri passi, esce dalla famiglia, si avventura nel mondo. Lo diceva bene Goethe parlando del figlio: “Ciò che hai ereditato riconquistalo se vuoi possederlo davvero”. Dunque figlio è colui che riconquista ciò che ha ricevuto, ossia la vita. Il figlio desidera che la vita sia sua e non un prolungamento della vita altrui. Per il “bambino” tutto ciò non avviene, gli è precluso. Il “bambino” si compiace di essere amato; rischia di immaginare di essere amato per sempre, di essere perennemente in credito e dunque di non restituire niente. Difficilmente fa il passo di mettere in gioco il proprio desiderio, la propria mancanza. Preferisce incarnare la posizione di oggetto d’amore. In una battuta: bambini si nasce, figli si diventa. O meglio ciascuno nasce bambino e può diventare figlio. Dipende in gran parte dal padre e dalla madre e da come essi hanno fondato una famiglia.  
Quando viene affermato che l’amore dei genitori, anche omosessuali, è sufficiente a crescere bene un bambino, si tratta di intendere di quale amore si tratta. Talvolta, cosa non rara, l’amore è problematico o addirittura patologico. Può accadere in qualsiasi relazione. Tuttavia, cosa imprescindibile, l’amore genitoriale, in quanto tale, non è sufficiente a istituire simbolicamente il figlio. E’ una condizione non sufficiente. 
Occorre altro per istituire il figlio. Occorre che ci sia un padre e una madre, ossia due corpi sessuati, due corpi cioè contrassegnati da una differenza (anatomica, simbolica, psichica). Solo così a sua volta il figlio potrà crescere pensando di appartenere anch’egli all’uno o all’altro sesso (nome). Occorre inoltre che un figlio possa svolgere e soggettivare il mito delle proprie origini. Che possa pensarsi e costruire la propria identità situandosi in una struttura della parentela e della genealogia (cognome). Per ogni individuo è essenziale sapere “da dove vengo”, per capire “dove andare”, per cercare di tessere un senso e una direzione alla propria vita. 

    Il grande "dibattito" di questi mesi sull’omogenitorialità mette in rilievo il tentativo di dimostrare la supremazia della biotecnologia sui criteri simbolici che governano la filiazione. Di fatto la biotecnologia tenta, secondo una versione medicalistica, di smontare, decostruire e segmentizzare la logica della filiazione. Dunque vi sarebbero tre madri: quella che mette l’ovulo, quella che attua la gestazione, quella sociale. E due padri: colui che mette lo spermatozoo e quello sociale. In questa frammentazione la dimensione simbolica della relazione sparisce e lo statuto di figlio svanisce. Se viene svilito questo statuto di figlio, così storicamente centrale in qualsiasi cultura e società, la riproduzione umana diventa una faccenda dove più nulla è distinguibile. Dove l’alternanza della vita e della morte che consente l’alternarsi delle generazioni, si spegne. E quindi dove ogni memoria e ogni tradizione diventa un mausoleo, ossia una celebrazione narcisistica e autoreferenziale di se stessi. Ogni differenza soggettiva verrebbe bandita. 

martedì 9 febbraio 2016

BREVE STORIA DELL'OMBELICO. Da dove vengono i bambini. Di Giancarlo Ricci

Riceviamo e pubblichiamo questa "Breve storia dell’ombelico. Da dove vengono i bambini" di Giancarlo Ricci.

Sulla storia dell’ombelico, curioso segno che ciascun essere umano ha inscritto sul proprio corpo, parecchio potrebbe raccontarsi. 
Fin da piccoli i bimbi scrutano insistentemente questo particolare avvallamento in mezzo alla pancia. Chiedono che cosa sia, a cosa serva, chi l’abbia inventato. In realtà non riescono a capire che è una vera e propria cicatrice. Ma cicatrice di che cosa?
Quando un adulto spiega che l’ombelico è una cicatrice, i bimbi rimangono increduli, pensano che sia uno scherzo, il solito giochetto stupido per farli divertire. Viene spiegato loro che un tempo, quando erano più piccoli, venivano alimentati con un tubicino collegato direttamente alla loro pancia. Fanno un po’ fatica i bimbi a capire questa cosa, ma fin qui pare ci arrivino, almeno sembra. 

La vera difficoltà sorge quando essi cercano di capire a che cosa era collegato, dall’altra parte, quel tubicino: a un corpo, a un frigorifero, a un biberon gigantesco? Proprio non riescono a farsi una ragione su dove andasse a finire quel tubicino, a che cosa fosse collegato. 
Alla mamma, rispondono in coro gli adulti. Al corpo della mamma, precisa qualcuno. All’utero della mamma, corregge un altro. In verità, alla placenta, sentenzia infine il vero adulto. A queste risposte i bimbi rimangono un po’ confusi. I più risoluti insistono nel chiedere perentoriamente se questo tubicino fosse attaccato alla mamma o all’utero della mamma. All’utero della mamma, rispondono alcuni adulti. Insomma, alla mamma che ti ha nutrito, rispondono altri. 
A questo punto alcuni bambini rimangono perplessi e pensosi. I più svegli incominciano a questionare: ci avete raccontato che l’utero dove si cresce da piccoli è sempre quello di nostra mamma! Sì, rispondono gli adulti, un po’ seccati, è quello dell’utero della mamma. 
I più svegli, rimuginando, poco dopo sbottano: ma allora l’utero e la mamma possono essere diversi…Gli adulti, spazientiti, ammettono: talvolta è lo stesso della mamma altre volte no. Le domande dei bambini esondano in piena: ma allora, come mai sul mio corpo c’è questa cicatrice che non ha nulla a che fare con mia madre? C’è allora una mamma vera e una mamma falsa? Qual è dunque mia mamma? Allora io da dove provengo? Da chi sono stato nutrito? Allora anche il mio corpo può essere il mio o quello di un altro. Mi hanno sostituito la mamma, scuote la testa il bimbo più appartato. 

Gli adulti, travolti da tante e inconsuete domande, ormai avevano molte altre cose da fare e si apprestano a squagliarsela a passi felpati. 
Prima che l’ultimo adulto lasciasse la stanza sentì la voce del bimbo più grandicello che chiede: Ma il papà sa di tutto ciò? Sa mia padre che l’utero che mi ha nutrito e cresciuto non è quello di mia mamma? Lo sa?
Immerso nel silenzio proseguì da solo i suoi pensieri: se mio papà lo sa significa che era d’accordo. Se questo è vero, significa che mio padre mi ha generato con un’altra donna. Oppure il corpo da cui provengo è stato fecondato da un altro uomo. Insomma da dove vengono i bambini? Da quante madri o da quanti padri…

Così, dopo tutto ciò, alcuni bimbi si convinsero che quella cicatrice che avrebbe dovuto significare sul proprio corpo, la traccia della propria storia e della propria provenienza, in realtà rappresentava qualcos’altro che non riuscivano a intendere…