Ospitiamo un intervento di Michele Gastaldo
(consulente di direzione / consulente per la conciliazione lavoro famiglia)
intorno alla proposta dei matrimoni gay e alla sue implicazioni sociali e politiche
(consulente di direzione / consulente per la conciliazione lavoro famiglia)
intorno alla proposta dei matrimoni gay e alla sue implicazioni sociali e politiche
Il vero problema risiede nel cambiamento della definizione del concetto di matrimonio: se il matrimonio diventa per lo Stato il “luogo degli affetti”, che di per sé che non ha più nessun legame con la nascita della futura generazione, lo stesso Stato si alleggerisce di parte delle sue responsabilità verso le future generazioni e verso le giovani coppie che le hanno a carico. Ovviamente per lo Stato è meno oneroso essere “custode dell’amore” dei suoi cittadini piuttosto che essere custode delle future generazioni e garante della sostenibilità dello Stato Sociale a venire. Se con il “matrimonio per tutti” la reversibilità della pensione e gli altri trasferimenti economici sono giustificati unicamente dalla cura che i coniugi si prestano vicendevolmente e non più dagli oneri rivolti alla futura generazione, questi stessi trasferimenti perdono in buona parte, se non tutta, la loro legittimazione.
La questione del matrimonio gay o delle unioni civili equiparate al matrimonio tra un uomo e una donna è considerata da una parte (consistente) della sinistra in una ottica di dovuta uguaglianza, perché a eguali condizioni spetterebbero uguali trattamenti. Infatti, l’uguaglianza sociale, insieme a quello della pace, è indubbiamente il valore fondamentale della sinistra. Ma il matrimonio gay, il matrimonio “omo” tra due uguali è davvero uguale al matrimonio tra un uomo e una donna, tra due diversi?
Per realizzare la giustizia e uguaglianza sociale il Welfare, in gran parte conquistato attraverso un secolo di lotte politiche della sinistra e vera sua ragione d’essere, gioca un ruolo primario. Principale caratteristica dello stato sociale è la sua mutualità e il suo carattere solidaristico, prevalentemente in chiave intergenerazionale: in sintesi significa che le generazioni attive pagano la pensione e la sanità alla generazione anziana. La sostenibilità dello stato sociale dipende quindi dall’equilibrio intergenerazionale, demografico. Come è noto, tale equilibrio, in quasi tutti gli stati industrializzati con un sistema di welfare sviluppato, negli ultimi decenni si è progressivamente eroso, mettendo a repentaglio l’intero nostro sistema sociale.
La natura di questo nostro sistema sociale prevede che il costo del mantenimento della generazione anziana gravi sull’intera popolazione attiva, mentre il costo della nuova generazione, cioè dei figli, sia prevalentemente a carico delle famiglie. (Delle famiglie con figli a carico, per intenderci, dato che il termine “famiglia” oggi è usato in modo molto esteso.) I benefici dei figli invece, ossia la loro capacità, di mantenere da adulti la vecchia generazione attraverso i contributi previdenziali e le tasse, vanno a tutti.
È chiaro che in tale situazione, regolata dai soli meccanismi di mercato, la famiglia con figli non è più “competitiva” rispetto a chi non ha figli; ciò né sul piano dei consumi né sul piano del mercato del lavoro. È questo il motivo per cui lo Stato fino a oggi ha cercato – almeno nelle dichiarazioni d’intento - di riservare un trattamento distinto alla famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, cioè a quella formazione sociale in grado di procreare. In Italia tale intento trova riscontro negli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, sostenuti sia dalla sinistra comunista che riformista dell’epoca.
Chi chiede l’equiparazione delle unioni omosessuali alla famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna lo motiva solitamente con il fatto che la società, negli ultimi quarant’anni, si sarebbe evoluta sul piano morale e dei costumi. Infatti oggi siamo molto più liberi nell’organizzare i nostri affetti secondo i nostri desideri. In realtà il riconoscimento della famiglia basata sul matrimonio, intesa come “società naturale” che precede quindi la politica e le istituzioni statali, non era e non è basato su fattori di morale sessuale, bensì su un criterio sociale. Ovvero il trattamento “privilegiato” della famiglia ha come primario obiettivo la tutela dei più deboli, dei bambini, e, in una prospettiva politico-economica di medio-lungo termine, la sostenibilità dei sistemi sociali sopra menzionati, che presuppongono un sostanziale equilibrio demografico tra le generazioni. In tale contesto va inoltre considerato che l’innalzamento del livello occupazionale femminile, che nei quattro decenni passati ha contribuito a compensare parzialmente gli effetti dello squilibrio demografico, rappresenta un provvedimento “una tantum” che oggi ha in larga misura esaurito il suo potenziale.
Comunemente i media, i gruppi di interesse e parte della politica sostengono che “il matrimonio gay o le unioni civili non tolgono niente alla famiglia”. In un’ottica stazionaria è sostanzialmente vero che i costi sociali aggiuntivi (reversibilità della pensione e trasferimenti economici a favore delle coppie gay sposate), sostenuti dai contribuenti, sarebbero comunque di entità trascurabile, visto che solo una piccola minoranza all’interno della piccola minoranza dei gay è interessata a una scelta del tipo matrimoniale. A questo punto si pone immancabilmente la domanda relativa all’equità di tali trasferimenti economici. Non dimentichiamo che la discussione, tra i costituzionalisti, sulla legittimità della reversibilità della pensione e di altri “privilegi” riservati alla famiglia, in alcuni paesi europei che hanno introdotto la “parità di trattamento” alle differenti forme di convivenza, è già in pieno corso. Ed è ovvio che le principali vittime di questo cambiamento sarebbero in primo luogo le donne che si sono dedicate alla cura dei figli e che pertanto hanno potuto versare minori contributi previdenziali per la propria pensione. La politica nella società capitalista postmoderna degli ultimi trenta anni ha fatto sì che i figli siano diventati la principale causa di povertà delle giovani famiglie. L’emergenza famiglia, il crollo delle nascite e il conseguente crollo dello stato sociale non trovano il debito spazio nei media e nel dibattito pubblico. Del resto all’interno del sistema capitalista, in modo spontaneo non si propone nessun gruppo di potere interessato a promuovere tale causa.
La sinistra, almeno a partire dal 1968, ha sostenuto la liberalizzazione dei costumi, inclusi quelli sessuali e ha avuto il merito di aver dedicato, in generale, maggiore attenzione alle libertà e ai diritti individuali rispetto al passato. Nello stesso momento va constatato che l'estensione delle libertà individuali a tutti i campi ha alimentato una serie di deregolamentazioni a livello istituzionale ed economico. Alcune delle quali, come noto, hanno generato effetti assai negativi per la collettività (basti pensare alle crisi finanziarie e il crescente divario sociale verificatosi negli ultimi anni). Oggi il “matrimonio per tutti”, il matrimonio gay, la parità di trattamento tra ciò che non è uguale o, più in generale, l’eventuale deregolamentazione del diritto di famiglia, rappresenterebbe un altro caso in cui si antepone l’interesse individuale a quello collettivo.
La richiesta di introdurre il matrimonio gay è basata su motivazioni ispirate a un desiderio di “parità morale” più che di parità sociale. Ma lo Stato laico non deve ergersi a ente morale, dovrebbe soltanto garantire giustizia ed equità sociale. Dovrebbe riservare parità di trattamento a ciò che è uguale ma rispettare ciò che è differente. Ciò che oggi è differente, specie quando risulta di così fondamentale importanza per il bene comune, è piuttosto la famiglia. Questa sì è una cosa di sinistra. Auguriamoci che non venga lasciata ad altri.
Per realizzare la giustizia e uguaglianza sociale il Welfare, in gran parte conquistato attraverso un secolo di lotte politiche della sinistra e vera sua ragione d’essere, gioca un ruolo primario. Principale caratteristica dello stato sociale è la sua mutualità e il suo carattere solidaristico, prevalentemente in chiave intergenerazionale: in sintesi significa che le generazioni attive pagano la pensione e la sanità alla generazione anziana. La sostenibilità dello stato sociale dipende quindi dall’equilibrio intergenerazionale, demografico. Come è noto, tale equilibrio, in quasi tutti gli stati industrializzati con un sistema di welfare sviluppato, negli ultimi decenni si è progressivamente eroso, mettendo a repentaglio l’intero nostro sistema sociale.
La natura di questo nostro sistema sociale prevede che il costo del mantenimento della generazione anziana gravi sull’intera popolazione attiva, mentre il costo della nuova generazione, cioè dei figli, sia prevalentemente a carico delle famiglie. (Delle famiglie con figli a carico, per intenderci, dato che il termine “famiglia” oggi è usato in modo molto esteso.) I benefici dei figli invece, ossia la loro capacità, di mantenere da adulti la vecchia generazione attraverso i contributi previdenziali e le tasse, vanno a tutti.
È chiaro che in tale situazione, regolata dai soli meccanismi di mercato, la famiglia con figli non è più “competitiva” rispetto a chi non ha figli; ciò né sul piano dei consumi né sul piano del mercato del lavoro. È questo il motivo per cui lo Stato fino a oggi ha cercato – almeno nelle dichiarazioni d’intento - di riservare un trattamento distinto alla famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna, cioè a quella formazione sociale in grado di procreare. In Italia tale intento trova riscontro negli articoli 29, 30 e 31 della Costituzione, sostenuti sia dalla sinistra comunista che riformista dell’epoca.
Chi chiede l’equiparazione delle unioni omosessuali alla famiglia basata sul matrimonio tra un uomo e una donna lo motiva solitamente con il fatto che la società, negli ultimi quarant’anni, si sarebbe evoluta sul piano morale e dei costumi. Infatti oggi siamo molto più liberi nell’organizzare i nostri affetti secondo i nostri desideri. In realtà il riconoscimento della famiglia basata sul matrimonio, intesa come “società naturale” che precede quindi la politica e le istituzioni statali, non era e non è basato su fattori di morale sessuale, bensì su un criterio sociale. Ovvero il trattamento “privilegiato” della famiglia ha come primario obiettivo la tutela dei più deboli, dei bambini, e, in una prospettiva politico-economica di medio-lungo termine, la sostenibilità dei sistemi sociali sopra menzionati, che presuppongono un sostanziale equilibrio demografico tra le generazioni. In tale contesto va inoltre considerato che l’innalzamento del livello occupazionale femminile, che nei quattro decenni passati ha contribuito a compensare parzialmente gli effetti dello squilibrio demografico, rappresenta un provvedimento “una tantum” che oggi ha in larga misura esaurito il suo potenziale.
Comunemente i media, i gruppi di interesse e parte della politica sostengono che “il matrimonio gay o le unioni civili non tolgono niente alla famiglia”. In un’ottica stazionaria è sostanzialmente vero che i costi sociali aggiuntivi (reversibilità della pensione e trasferimenti economici a favore delle coppie gay sposate), sostenuti dai contribuenti, sarebbero comunque di entità trascurabile, visto che solo una piccola minoranza all’interno della piccola minoranza dei gay è interessata a una scelta del tipo matrimoniale. A questo punto si pone immancabilmente la domanda relativa all’equità di tali trasferimenti economici. Non dimentichiamo che la discussione, tra i costituzionalisti, sulla legittimità della reversibilità della pensione e di altri “privilegi” riservati alla famiglia, in alcuni paesi europei che hanno introdotto la “parità di trattamento” alle differenti forme di convivenza, è già in pieno corso. Ed è ovvio che le principali vittime di questo cambiamento sarebbero in primo luogo le donne che si sono dedicate alla cura dei figli e che pertanto hanno potuto versare minori contributi previdenziali per la propria pensione. La politica nella società capitalista postmoderna degli ultimi trenta anni ha fatto sì che i figli siano diventati la principale causa di povertà delle giovani famiglie. L’emergenza famiglia, il crollo delle nascite e il conseguente crollo dello stato sociale non trovano il debito spazio nei media e nel dibattito pubblico. Del resto all’interno del sistema capitalista, in modo spontaneo non si propone nessun gruppo di potere interessato a promuovere tale causa.
La sinistra, almeno a partire dal 1968, ha sostenuto la liberalizzazione dei costumi, inclusi quelli sessuali e ha avuto il merito di aver dedicato, in generale, maggiore attenzione alle libertà e ai diritti individuali rispetto al passato. Nello stesso momento va constatato che l'estensione delle libertà individuali a tutti i campi ha alimentato una serie di deregolamentazioni a livello istituzionale ed economico. Alcune delle quali, come noto, hanno generato effetti assai negativi per la collettività (basti pensare alle crisi finanziarie e il crescente divario sociale verificatosi negli ultimi anni). Oggi il “matrimonio per tutti”, il matrimonio gay, la parità di trattamento tra ciò che non è uguale o, più in generale, l’eventuale deregolamentazione del diritto di famiglia, rappresenterebbe un altro caso in cui si antepone l’interesse individuale a quello collettivo.
La richiesta di introdurre il matrimonio gay è basata su motivazioni ispirate a un desiderio di “parità morale” più che di parità sociale. Ma lo Stato laico non deve ergersi a ente morale, dovrebbe soltanto garantire giustizia ed equità sociale. Dovrebbe riservare parità di trattamento a ciò che è uguale ma rispettare ciò che è differente. Ciò che oggi è differente, specie quando risulta di così fondamentale importanza per il bene comune, è piuttosto la famiglia. Questa sì è una cosa di sinistra. Auguriamoci che non venga lasciata ad altri.
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