mercoledì 29 gennaio 2020

GLI STUDI SULL'ODIO. Paradossi, parodie e caricature


Pubblichiamo di seguito uno "studio" americano presentato 
sulla rivista MICROMEGA dal prof. VINCENZO ROMANIA
che insegna Sociologia all'Università di Padova.


 La caratteristica di questa ricerca è che si tratta di una burla organizzata da tre docenti universitari per dimostrare i punti deboli e critici di quelle correnti, così alla moda nelle Università americane, che si dedicano ai cosiddetti grievance studies così come ai queer studies, gender studies o sexual studies.
Così le punte più avanzate del politicamente corretto si fanno
strada per affermarsi come verità ultime nelle scienze sociali.

Del resto nel nostro paese l'enfasi mediatica, generica e indifferenziata, con cui si celebra la condanna dell'odio, di
qualsiasi odio, meriterebbe diverse riflessioni. L'equivalenza tra odio e razzismo, tra odio e nientificazione dell'altro, tra odio e massacro rischiano alcuni malintesi.

L'assenza di distinzioni e di differenze nel concetto stesso di odio mostra il volto dell'esecrazione e del pensiero unico.



Il rancore e il valore: dai grievance studies all’epistemologia delle scienze sociali


di VINCENZO ROMANIA

La burla di Lindsay, Boghossian e Pluckrose ai danni dei cosiddetti “grievance studies”, gli studi del rancore (queer theory, gender studies, sexual studies) ha avuto successo, ma i suoi risultati non dimostrano quanto pensano gli autori, bensì l'odierna mercificazione del sapere scientifico e la conseguente destituzione della scienza quale sapere critico legittimato.

Il caso

Nell’agosto 2017, tre ‘accademici impegnati’ come si autodefiniscono James Lindsay, Peter Boghossian ed Helen Pluckrose [1] danno vita a un esperimento di hoaxing, ovvero una burla intenzionale volta a colpire l’autorità e la reputazione di chi ne è vittima. In particolare, se la prendono con quelli che definiscono “gli studi del rancore” (grievance studies), egida stigmatizzante sotto cui riuniscono approcci e oggetti di studio diversi quali: il femminismo, la queer theory, i gender studies, i sexual studies, oltre a interi campi disciplinari: la sociologia e l’antropologia.

La burla consiste in questo. In poco meno di dieci mesi redigono venti articoli scientifici volutamente viziati da basi dati inventate, tesi bizzarre e più che discutibili principi etici. Quindi, li sottopongono, usando degli pseudonimi, a una serie di riviste scientifiche dei settori presi di mira. Gli autori le definiscono come “riviste di alto rango”, ma si tratta in gran parte di riviste interdisciplinari, con una reputazione internazionale in quasi tutti i casi medio-bassa [2]. Scopo dichiarato dell’esperimento è dimostrare come in certi settori “il sapere si basi meno sulla ricerca della verità e più sulla riconferma del rancore sociale, fermamente stabilito, se non del tutto dominante”. L’attacco è diretto a ciò che viene descritto come un sapere critico che, nel fideistico tentativo di invertire i rapporti di potere vigenti nelle società occidentali, finirebbe per “bullizzare studenti, amministratori e altri dipartimenti, costringendoli ad aderire alla loro visione del mondo”. Gli autori affermano che gli studi del rancore stiano anzi “corrompendo la ricerca accademica”, ove una “sana e aperta conversazione su temi identitari quali genere, razza e sessualità (e sul sapere che gravita attorno a essi) è [diventata] pressoché impossibile”.

Prima che l’intero esperimento giunga al termine, nel luglio 2018 il progetto s’interrompe. Su twitter, Real Peer Review segnala ironicamente la pubblicazione dell’articolo “Human Reactions to Rape Culture and Queer Performativity in Urban Dog Parks in Portland, Oregon”, sulla rivista Gender, Place and Culture. Fallito il controllo a posteriori sulla falsa identità dell’autrice (Helen Wilson), la rivista ritira l’articolo. 

L’evento ha un grande risonanza nell’opinione pubblica americana. Se ne occupa anche il Wall Street Journal, che vi dedica un eloquente editoriale intitolato “Le fake news sbarcano nell’accademia” [3]. A questo punto Boghossian, Lindsay e Pluckrose iniziano a raccogliere le loro idee e a pubblicare un lungo articolo sul magazine Areo che presenta estensivamente i risultati della loro sperimentazione e da cui traggo gran parte delle citazioni contenute in questo articolo.

Ad oggi, quattro dei venti articoli sottoposti a riviste scientifiche son già stati pubblicati, tre son stati accettati ma non ancora pubblicati; altri sette sarebbero, secondo gli autori, in una situazione di “revise and resubmit” e soltanto sei sarebbero stati bocciati perché “fatalmente imperfetti o irrecuperabili”. Degli altri sette articoli sotto revisione, almeno tre sarebbero ‘certamente pubblicabili’ e un altro paio in attesa di una decisione da parte dell’editor. Altre valutazioni sembrerebbero invece smentire tale previsione [4] e limitare il successo dell’esperimento ai soli sette articoli già pubblicati o in via di pubblicazione.

Di seguito, presenterò il contenuto degli articoli pubblicati o accettati, discuterò della fondatezza delle accuse e dei loro risvolti pragmatici e userò il caso per dibattere, brevemente, della svolta capitalistica del sapere accademico e del rapporto fra scienze sociali e valori, a partire da un recente articolo di Andrew Abbott [5].

Il contenuto degli articoli

Una volta esploso il caso, come era ovvio che fosse, tutte le riviste hanno ritirato gli articoli prodotti nell’esperimento. Ciò nonostante, è fondamentale comprendere il contenuto per ricostruire le premesse della burla orchestrata da Boghossian, Lindsay e Pluckrose.

Il primo articolo pubblicato è il già citato “Human Reactions to Rape Culture and Queer Performativity in Urban Dog Parks in Portland, Oregon” [6]. Ivi gli autori sostengono la tesi bizzarra che i parchi canini rappresentino degli spazi di espressione di una cultura maschilista (canina e umana) e che il diverso peso dato dai padroni agli “stupri” omosessuali fra cani, rispetto agli omologhi eterosessuali, dimostrerebbe il peso di alcuni bias omofobi e misogini diffusi nella società americana. La metodologia utilizzata è quella dell’etnografia.

“Going in Through the Back Door: Challenging Straight Male Homohysteria and Transphobia through Receptive Penetrative Sex Toy Use” [7] sostiene la tesi che incoraggiare gli uomini eterosessuali a praticare la masturbazione anale possa limitare la loro transfobia e avvicinarli ai valori femministi.

“Who Are They to Judge? Overcoming Anthropometry and a Framework for Fat Bodybuilding” [8] sostiene la tesi che anche il corpo obeso possa essere considerato legittimamente e al pari di un corpo muscoloso, un esempio di body-building.

“An Ethnography of Breastaurant Masculinity” [9], sostiene che le dinamiche di oggettivazione del corpo femminile messe in atto dai frequentatori di questa sorta di topless restaurants possano problematizzare l’attrazione eterosessuale degli uomini verso le donne. Il target metodologico è ancora l’etnografia.


Fra gli altri esperimenti di articoli accettati ma non pubblicati il più significativo è “Our Struggle is My Struggle”, accettato da Affilia, rivista femminista del settore del servizio sociale, a nome di Maria Gomez (pseudonimo). In questo caso, gli autori hanno usato 3600 parole di un capitolo del Mein Kampf di Hitler, rincorniciandole secondo una prospettiva intersectional per avvalorare la tesi che il femminismo sia una lotta collettiva, più che individuale.

Fra gli articoli dichiarati dagli autori come ancora in fase di accettazione, invece, il più significativo è “Progressive Stack” proposto al giornale femminista Hypatia [10]. L’assurdità in tal caso è etica: si suggerisce, in un’ottica di riparazione dei privilegi razziali e di genere, di costringere gli studenti bianchi del college a restare incatenati per terra in silenzio durante l’orario di lezione, per far percepire loro cosa voglia dire essere schiavi.

La tesi

L’esperimento è interessante in sé poiché svela su larga scala gli effetti deleteri di certi meccanismi di produzione industrializzata del sapere scientifico. Tuttavia, gli autori giungono a delle conclusioni che sono a nostro avviso contraddistinte da sostanziali aporie logiche, politiche ed etiche, che andremo a discutere di seguito. “Il problema – sostengono – è epistemologico, politico, ideologico ed etico e sta corrompendo profondamente il sapere delle scienze umane e sociali. Al centro del problema è ciò che è formalmente detto “costruttivismo critico”, i suoi più egregi studiosi son chiamati a volte “costruttivisti radicali”. Tuttavia, Boghossian, Lindsay e Pluckrose definiscono tale approccio in modo anodino e scarsamente delimitato. Intendono per costruttivismo critico tutta quella produzione di sapere teorico ed empirico che propone una critica esplicita alle forme di costruzione sociale della realtà, ovvero quella epistemologia delle scienze umane e sociali che mira a smantellare le categorie di senso comune che informano il sapere scientifico e a svelare il carattere artefatto dei significati condivisi nelle nostre società. Sotto tale ombrello, in effetti, potrebbero ricadere moltissime differenti correnti: la teoria discorsiva foucaultiana, la critica alla vita quotidiana di Lefebvre, la filosofia dell’homo sacer di Agamben, la queer theory di Judith Butler, i post-colonial studies, gli approcci costruzionisti allo studio della scienza e per esteso il costruzionismo sociale di Berger e Luckman e quello interazionista di Kellner e Kellner. Oltre a molti altri approcci e volgarizzazioni dei precedenti.